mercoledì 20 settembre 2017

La Santa Messa XI - Dall'Unde et memores alla fine del Canone

Pubblicazione precedente: http://traditiomarciana.blogspot.com/2017/08/la-santa-messa-x-la-consacrazione.html

XXXVII. Unde et memores

La consuetudine di allargare le braccia sì ampiamente all'Unde et memores si è conservata anche in alcune varianti monastiche del rito romano

Ogni volta che il Sacrificio della Croce si rinnova sull’altare, automaticamente si fa anche memoria della prima volta che Gesù Cristo si è offerto al Padre il Venerdì Santo. Si obbedisce così all’ordine dato da Gesù agli Apostoli nell’Ultima Cena: “Ogni volta che farete questo, lo farete in mia memoria”. Così, subito dopo aver adorato il sangue, "Fatta la reale e sostanziale oblazione della Vittima con la Consacrazione, [il Sacerdote] conferma e conduce a termine la stessa, ripetuta l’oblazione verbale cioè l’orazione, che inizia Unde et memores… e con le altre cose susseguenti, aggiunti anche i sacri riti per lo stesso fine", come dice il Quarti.
Si aggiunge a ciò anche la commemorazione della Risurrezione, che ci conforta nella fede, e dell'Ascensione, che corrobora la nostra speranza (cfr. Dionigi Cartusiano), dacché quegli che quivi e sul Calvario fu immolato per la nostra redenzione, è il medesimo che risorse dai morti il terzo giorno e che ora siede glorioso al cielo alla destra del Padre.

In questa preghiera, il Sacerdote rinnova l'offerta della Chiesa alla SS. Trinità, precisando che la ricchezza del dono offerto durante il Sacrificio, Nostro Signore Gesù Cristo incarnato, non dipende dai propri meriti, bensì è un dono d'Iddio stesso: la Chiesa rende alla SS. Trinità ciò che Ella stessa le ha donato, il Figliuolo di Dio mandato a morire per la redenzione del mondo. Commenda dunque le oblate moltiplicando i segni di Croce, non certo per benedire la Vittima (che egli benediva quando era ancora vile materia, e non già Nostro Signore realmente presente) ma perché significhi che questa è la Vittima del Calvario, che veramente ha patito, immolata sulla Croce per l’uomo, perché si riporti la mente alla sua dolorosa Passione, si pensi nuovamente alle cinque Piaghe di Colui che pendeva in Croce. Anche, benedice in Cristo tutte le sue membra che in Lui sono un solo Corpo, e sono offerte in questo Sacrificio perché la grazia del Capo sia abbondantemente riversato su esse (Bousset).
Nel tracciare questi cinque segni di croce qualifica la Vittima con tre aggettivi, che leggiamo ispirandoci all'interpretazione data dal Soto:
  • Hostiam puram: la Vittima sacrificale dev'essere pura, gradita a Iddio, senza le macchie della corruzione che vengono, per esempio, dal culto degl'idoli. Questa prescrizione, già presente nei sacrifici cruenti veterotestamentari, si riflette completamente in Gesù Cristo, oblazione pura, contrapponendosi alle oblazioni compiute agli "dèi falsi e bugiardi", le quali sono impure e corrotte dalla falsa religione.
  • Hostiam sanctam: nella santità, però, il Sacrificio di Cristo si distacca gravemente dai sacrifici della Vecchia Legge, dacché solamente Dio immolato sulla Croce ha l'immenso potere santificante nei confronti di tutte le anime, che è condiviso anche dalla medesima Vittima offerta incruentemente sull'altare, che santifica immancabilmente il sacerdote e i presenti.
  • Hostiam immaculatam: anche qui il significato trascende la semplice "immacolatezza" prescritta dalla legge giudaica per le bestie sacrificali, perché chi più immacolato dell'Agnello di Dio, il quale mai commise peccato, ma anzi venne per portar su di sé i peccati del mondo?
Poi, segna singolarmente le due specie, nominandole come panem sanctum vitae aeternae e calicem salutis perpetuae, e dunque spiegando la loro duplice natura: come le vittime dei giudei venivano in parte offerte a Dio e in parte consumate dai sacerdoti, così il Cristo sacrificato non è solo oblazione infinitamente meritevole davanti a Dio, ma anche il nutrimento spirituale più elevato e santificante cui noi Cristiani possiamo accostarci, portando in sé i tesori della salvezza e della vita eterna.

Unde et mémores, Dómine, nos servi tui, sed et plebs tua sancta, eiúsdem Christi Fílii tui, Dómini nostri, tam beátæ passiónis, nec non et ab ínferis resurrectiónis, sed et in cælos gloriósæ ascensiónis: offérimus præcláræ maiestáti tuæ, de tuis donis, ac datis hóstiam + puram, hóstiam + sanctam, hóstiam + immaculátam, panem + sanctum vitæ ætérnæ e et cálicem + salútis perpétuæ.
Donde, o Signore, noi servi vostri, ma anche il vostro popolo santo, pure memori della sì beata Passione dello stesso Signore nostro Gesù Cristo vostro Figliuolo, nonché della sua risurrezione dagl’inferi, ma anche della sua gloriosa ascensione nei cieli: offriamo alla vostra sconfinata maestà, prendendo dai vostri doni e da ciò che voi ci avete dato, la vittima pura, la vittima santa, la vittima immacolata, il pane santo della vita eterna, e il calice della perpetua salvezza.

XXXVIII. Supra quae


Ancora il Sacerdote chiede a Dio di gradire le offerte, e facendolo fa memoria dei Sacrifici che gli furono offerti nell'Antico Testamento e che egli ebbe accetti: i sacrifici cruenti, infatti, prescritti dalla legge mosaica, erano prefigurazioni imperfette del Sacrificio cruento della Croce e della sua incruenta ripresentazione incruenta, che è la S. Messa; S. Bonaventura dice che "essi rappresentano propriamente la figura della Passione di Cristo e anzi della sua santissima Cena". Gli agnelli e i vitelli bruciati dai giudei erano così una anticipazione del perfetto Agnello di Dio, che porta su di sé i peccati del mondo. Per questo stesso motivo i sacrifici giudaici non furono più graditi a Dio, dopo la Passione di Nostro Signore: a qual scopo essi continuano a offrire oblazioni imperfette, quando una volontaria oblazione di merito infinito di Gesù Cristo l'aveva soppresse nel suo sangue versato per la remissione dei nostri peccati?

Prima di nominare questi sacrifici, però, chiede l'accettazione del Sacrificio per l'ennesima volta, e lo fa con le parole propitio ac sereno vultu respicere digneris (prese dalla Genesi IV, 4). Papa Benedetto XIV motiva l'ennesima iterazione della richiesta di gradimento con queste parole: "Anche se a Dio Padre è sempre accetta l’oblazione, sia da parte della cosa che è offerta sia da parte di Cristo che è l’offerente principale; ma potendo accadere che dalla parte del Sacerdote o del popolo non sia accetta, per questo il Sacerdote supplica Dio che posi uno sguardo favorevole e benigno sulle oblate".

Dopodiché passa alla elencazione dei sacrifici graditi offertigli dai grandi d'Israele, e ne ricorda tre particolarmente:
  • Il Sacrificio di Abele (cfr. Genesi IV), che la Sacra Scrittura ci presenta come accetto a Dio, a differenza di quello del fratello Caino. Bene scrive il Gueranger: "Così, Signore, avete accettato le offerte di Abele, benché fossero infinitamente inferiori a quelle che noi possiamo presentarti, [...] e con tutto ciò, per quanto infime fossero le offerte di Abele, voi eppure le avete accettate". Altri autori insigni rendono più ardito il paragone comparando la morte di Abele a quella del Cristo.
  • Il Sacrificio di Abramo (cfr. Genesi XXII), il quale per obbedienza al Signore era pronto a immolare il proprio unico figlio legittimo; benché il sangue di Isacco non fu sparso, perché un angelo di Dio impose di sostituirlo con un ariete, la deferenza del Patriarca lo rese comunque uno dei sacrifici più meritevoli; sarà poi il Padre stesso a mandare a morte, per obbedienza al suo medesimo disegno di salvezza, il suo Figliuolo unigenito, il quale però, per l'amore sconfinato che ci prova, arrivò a patire veramente la dolorosa morte.
  • Il Sacrificio di Melchisedech (cfr. Genesi XIV). Melchisedech è una delle prefigurazioni più perfette di Gesù Cristo, poiché era Sommo Sacerdote, il suo nome significa Re di Giustizia, era Re di Salem (che può leggersi sia "Gerusalemme" che "pace"), era senza genealogia (siccome il Cristo, essendo di natura divina generato prima di tutti i secoli), e offrì pane e vino, proprio come Nostro Signore durante la sua ultima cena.
Le parole conclusive, sanctum sacrificium et immaculatam hostiam, che fungono da apposizione al quae iniziale, dopo la lunga digressione "storica", furono introdotte, secondo molti autori, da Papa S. Leone, che ampliò il testo di una preghiera più antica. Effettivamente, la strana e illogica posizione di questi predicativi fa pensare sicuramente ad un'aggiunta tardiva.

Supra quæ propítio ac seréno vultu respícere dignéris: et accépta habére, sícuti accépta habére dignátus es múnera púeri tui iusti Abel, et sacrifícium Patriárchæ nostri Abrahæ: et quod tibi óbtulit summus sacérdos tuus Melchísedech, sanctum sacrifícium, immaculátam hóstiam.
Sopra le quali degnatevi di volgere uno sguardo propizio e benigno, e di averle accette, siccome vi degnaste di avere accetti i doni del vostro servo, il giusto Abele, il sacrificio del nostro Patriarca Abramo, e quello che v’offrì il vostro sommo sacerdote Melchisedech, il santo sacrificio, l’ostia immacolata.

XXXIX. Supplices te rogamus


Dunque, inchinato profondamente sull'altare, termina questa lunga sezione del Canone, iniziata prima della Consacrazione, e lo fa raccomandando la Vittima a Dio. Questa oblazione deve ascendere al cielo, infatti, poiché è la stessa che fu preparata dal cielo, la Santissima Umanità del Figlio, incarnata nel seno della Beata Vergine, e condorata di merito infinito dall'unione ipostatica con la natura divina. Dice infatti S. Gregorio Papa: "Allora Cristo immolò una Vittima solenne, quando Si offrì in cielo all’Eterno Padre per la materia della carne glorificata", vittima che, in virtù della successione apostolica del sacerdozio, continua a essere da lui medesimo offerta ogni giorno sugli altari.
L'orazione dice che il Sacrificio dev'essere portato al sublime e spirituale Altare di Dio, che S. Giovanni vide in visione e riportò nell'Apocalisse (VIII, 3), e che a portarlo misticamente debba essere un "Santo Angelo". Sul significato di queste oscure parole, che Innocenzo III definì "di tanta profondità che l’umano intelletto è appena capace di penetrarle", molti teologi e liturgisti si sono espressi, fornendo le più disparate interpretazioni. Riportiamo le principali:
  • S. Tommaso d'Aquino la interpreta in un senso tutto spirituale. "Il Sacerdote non chiede né che le specie sacramentali siano trasferite in cielo, - scrive infatti - né che il vero Corpo di Cristo cessi di essere lì, ma chiede questo per il Corpo Mistico (che certamente è significato in questo Sacramento), perché l’Angelo che assiste ai Divini Misteri ripresenti a Dio le preghiere del Sacerdote e del popolo". Dunque, secondo lui e molti altri teologi (la maggioranza), a dover compiere sì alto ministero non v'è angelo, né arcangelo, né cherubino, né serafino che sia degno, ma solo l'Angelus boni consilii, Nostro Signore Gesù Cristo stesso, il quale, conclude Benedetto XIV, "congiunge il Corpo Mistico con Dio Padre e con la Chiesa Trionfante".
    Da notarsi è che dom Gueranger segue la tesi che identifica il "Sanctum Angelum" con il Cristo Signore, ma nonostante ciò rifiuta l'interpretazione mistica del Corpo, che legge come quello fisico, sostenendo che in tal modo il Sacrificatore porterebbe Se Stesso Sacrificato al Padre, per far valere il merito infinito del suo olocausto.
  • Alcuni analisti, soprattutto greci, vedono qui l'Epiclesi (che, ricordiamo, i più vedono nel Veni Sanctificator o in altre preghiere del Canone), sostenendo che il termine "angelum" sia una brutta traduzione del greco (in cui era originariamente scritta la preghiera) ἄγγελον, che significa "messaggero, inviato", attributo tipico dello Spirito Santo. Alcuni liturgisti del XX secolo, affascinati da questa tesi, hanno provato a conciliarla con quella precedentemente esposta, sillogizzando che, essendo lo Spirito Santo e il Figlio due persone della stessa indivisa Trinità, ambedue sarebbero presenti con il loro compito in quell'Angelus boni consilii che ha da venire.
  • Ai più letterali, cui ci pare di poter dare ragione, pare che l'Angelo sia da intendersi in senso letterale, uno Spirito Celeste al quale incomba l’incarico di assistere il sacrificante, aiutarlo, dirigere e offrire le sue preghiere a Dio, l'Angelo che sta davanti all'Altare del Signore, secondo il libro dell'Apocalisse, e dunque (secondo l'esegesi comune) S. Gabriele. M. De Cochem riporta la visione di un sacerdote, cui apparve un angelo che portò l'ostia in cielo durante questa preghiera, come prova per questa lezione.
Il sacerdote conclude la preghiera richiedendo che il Sacrificio sia anche propiziatorio per sé e per chi assiste alla Santa Liturgia, perché li riempia di ogni grazia e celeste benedizione. Nel farlo, traccia un segno di croce sul calice, uno sull'ostia e poi segna se stesso. "Si rappresentano così il distendimento del Corpo, l’effusione del Sangue, ed il frutto della Passione" (S. Tommaso Aquinate).
Qui finisce la seconda parte del Canone, che riguarda l'offerta. Queste tre orazioni circondano l'atto della Consacrazione, come le precedenti l'hanno preparato. Ora la santa Chiesa ci conduce alla preghiera d'intercessione.

Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: iube hæc perférri per manus sancti Angeli tui in sublíme altáre tuum, in conspéctu divinæ maiestátis tuæ: ut quotquot, ex hac altáris participatióne sacrosánctum Fílii tui  Cór + pus et Sán + guinem sumpsérimus + ómni benedictióne cælesti  et grátia repleámur. Per eúmdem Christum Dóminum nostrum. Amen.
Supplici vi preghiamo, o Dio onnipotente: comandate che questi doni sian condotti al vostro sublime altare per mano del vostro santo Angelo, alla presenza della divina vostra maestà, affinché in quanta misura, dalla partecipazione a questo altare, avremo ricevuto il Corpo sacrosanto e il Sangue del vostro Figlio, siam ricolmati di ogni grazia e celeste benedizione. Per lo stesso Cristo Signore nostro. Amen.

XL. Memento dei morti


Lo fa dunque con la seconda orazione sopra i dittici: all'inizio del Canone aveva offerto il sacrificio per intercessione ai vivi, che almeno spiritualmente partecipano all'oblazione; ora lo fa per intercessione ai morti, che godono dei frutti dell'oblazione in virtù della nostra partecipazione. Prega qui per tutti quelli che nos praecesserunt cum signo fidei (il sigillo della SS. Trinità, ricevuto nel Battesimo e nella Cresima), e dunque per i cattolici in comunione con la Chiesa; aggiunge poi una preghiera per omnibus in Christo quiescentibus, includendo qui anche quelli che, eretici o scismatici inconsapevolmente o incolpevolmente, oppure eretici convinti che hanno avuto la grazia di una vera contrizione in punto di morte, hanno ottenuto mediatamente la salvezza attraverso il battesimo di desiderio. Non prega pubblicamente per chi è fuori dalla Chiesa, ma, come in precedenza, può farlo pubblicamente, come argomenta il Coninck: "È facile, allo stesso Sacerdote, compiere tale cerimonia come persona pubblica, ed offrire a Dio il Sacrificio nella persona della Chiesa – e poi, insieme, offrire lo stesso come privato e supplicare Dio per esso in favore di qualcuno".
L'orazione si conclude con una pericope antichissima, che ci ricorda nel linguaggio i tempi delle catacombe, con l'esaltazione del "sonno della pace", che si ritrova anche nelle più datate preghiere degli Uffici dei Martiri, e che costellava l'immaginario dell'epoca. Poi, si accenna alla dottrina del Purgatorio: le anime in Purgatorio, per cui noi preghiamo acciocché possano lasciare il luogo della loro purificazione e giungere al littore beato della Patria Celeste, hanno pace e quiete in quanto certe dell’eterna beatitudine e libere dalla guerra delle tentazioni, ma sono tormentate dalle fiamme e sono tenute lontane dal Divino Cospetto; per cui supplichiamo per loro il refrigerio cioè la liberazione dalla pena del senso, la luce o eterna gloria (quella che, stando all'Apocalisse, è emanata dalla lampada che è l'Agnello), e la pace o felicità perfetta.
Al Per eundem Christum il sacerdote inchina il capo, per eccezione, visto che le rubriche non prevedono questo per la conclusione breve; bellissima e universalmente accettata è la lettura del Cavalieri: “perché questa invocazione è per coloro che riposano in Cristo, o morti con Cristo. Come Cristo morendo chinò il capo, così il Sacerdote imitando questo gesto così suggestivo, vuole ricordare Colui il quale dopo aver chinato il capo e spirando discese a liberare tutti i giusti defunti”.

Meménto étiam, Dómine, famulórum famularúmque tuárum N. et N. qui nos præcessérunt cum signo fídei, et dórmiunt in somno pacis.
Ipsis, Dómine, et ómnibus in Christo quiescéntibus, locum refrigérii, lucis et pacis, ut indúlgeas, deprecámur. Per eúmdem Christum Dóminum nostrum. Amen.
Ricordatevi pure, o Signore, dei servi e delle serve vostre N. e N., che ci han preceduti col sigillo della fede, e dormono nel sonno della pace.
A loro, o Signore, e a tutti coloro che riposano in Cristo, vi preghiamo di concedere un luogo di refrigerio, di luce e di pace. Per lo stesso Cristo Signore nostro. Amen.

XLI. Nobis quoque peccatoribus


Solo tre parole, proferite in modo udibile, rompono armoniosamente il lungo silenzio del Canone: nobis quoque peccatoribus, la formula con il quale il sacerdote introduce la prece d'intercessione per sé e per coloro che assistono presentemente alla S. Messa, perché anch'essi sia fruttuoso il Sacrificio e perché possan trovare accettazione e misericordia anzi a Iddio. In essa, il Sacerdote, sull’esempio del Pubblicano, col segno e con la voce prega per la Chiesa Militante, perché Dio doni una qualche parte e la compagnia con la Chiesa Trionfante. Passa dunque a nominare un'altra schiera di quindici santi e sante martiri, prevalentemente romani, dei primi secoli (valgono i discorsi già fatti per il Communicantes), con i quali si chiede il "consorzio". Per questo, il Nobis quoque è anche detta Oratio pro consortio, mentre il Communicantes è detto piuttosto Oratio pro suffragio.

I Santi che hanno avuto il privilegio di essere nominati sono S. Giovanni Battista il Precursore, S. Stefano protodiacono, S. Mattia Apostolo, S. Barnaba compagno di S. Paolo, S. Alessandro Papa di Roma, S. Ignazio Vescovo di Antiochia, due altri martiri romani (Marcellino e Pietro) e sette vergini martiri (Felicita e Perpetua, Agata, Lucia, Agnese, Cecilia, Anastasia ligure).

Dopo aver fatto di nuovo memoria dei Santi, il sacerdote domanda a Dio che si degni ammetterci tra loro. Non certamente perché ne abbiamo diritto per i nostri meriti, ma per opera e grazia della sua bontà e misericordia. (Dom Gueranger)

Nobis quoque peccatóribus fámulis tuis, de multitúdine miseratiónum tuárum sperántibus, partem áliquam, et societátem donáre dignéris, cum tuis sanctis Apóstolis et Martyribus: cum Ioánne, Stéphano, Matthía, Bárnaba, Ignátio, Alexándro, Marcellíno, Petro, Felicitáte, Perpétua, Ágatha, Lúcia, Agnéte, Cæcília, Anastásia, et ómnibus Sanctis tuis: intra quorum nos consórtium, non æstimátor mériti, sed véniæ, quǽsumus, largítor admítte. Per Christum Dóminum nostrum.
Anche a noi peccatori, vostri servi, che speriamo della moltitudine delle vostre misericordie, degnatevi di donare una qualche parte, e il consorzio coi vostri santi Apostoli e Martiri: con Giovanni, Stefano, Mattia, Barnaba, Ignazio, Alessandro, Marcellino, Pietro, Felicita, Perpetua, Agata, Lucia, Agnese, Cecilia, Anastasia, e tutti i vostri Santi: entro al cui consorzio, non valutando il merito, ma donando perdono, vi preghiamo di ammetterci. Per Cristo Signore nostro.

XLII. Dossologia conclusiva (per quem haec omnia)


L'orazione che precede la dossologia e l'elevazione che concludono il Canone era anticamente recitata dal Vescovo di Roma sopra dei doni (uva, frutta, olio etc.) che venivano portati dai fedeli alla Sinassi Eucaristica ed erano in tal momento benedetti. L'uso scomparve ben presto, procedendo di pari passo con la moltiplicazione delle Messe; l'orazione di benedizione, tuttavia, non andò perduta, ma fu mantenuta nel Canone, con i suoi segni di croce, riferendola tuttavia alle oblazioni. Questo è il motivo per cui in questa breve benedizione si trova la formula haec omnia e il lessico è dissimile (meno sacrificale) di quello delle altre preghiere liturgiche.
Di quest'antica usanza, peraltro, sono sopravvissute due vestigia: la benedizione del sacro crisma operata dal Vescovo al Giovedì Santo, che si fa in questo momento, e una cerimonia del rituale benedettino, ossia che il giorno della Trasfigurazione si benedice, in questo momento, l'uva, benché non si adoperino per questa benedizione le parole del Canone, ma un'orazione presa dal Messale di Cluny.

La rilettura "sacrificale" di questa orazione è pressoché la seguente: Dio tramite il Figlio crea questi beni, cioè pane e vino (dei quali restano gli accidenti); santifica con l’accettarli (accettando l’oblazione) come materia della Consacrazione, perché avvenga che passino dall’uso profano all’uso santo; vivifica per le parole della Consacrazione, con le quali la sostanza del pane e del vino si converte nella sostanza del Corpo e Sangue di Cristo, Egli stesso autore della vita, Che è “pane vivo e vitale, che dà la vita all’uomo”; benedice, poiché questo Sacramento è fonte di ogni grazia e benedizione, e ce ne fa dono con la Comunione, dalla quale siamo ricolmati di grazia e di tutti i beni.

Infine, tutto si conclude con una grande dossologia: Per ipsum perché Cristo, in quanto Dio-Uomo, è il Mediatore tra Dio e gli uomini, e cum ipso perché è Persona divina distinta dal Padre e dallo Spirito Santo, e in ipso perché (per “circumsessione”) è l’unico Dio col Padre e lo Spirito Santo. Questa prima parte viene accompagnata da tre segni di croce con l'ostia sopra il Sangue prezioso, a significare che il Figlio (e non le altre due persone), assunta l'umana natura, versò il proprio sangue per gli uomini. Poi, segnando sempre con l'ostia, sopra il corporale per due volte, pronuncia la vera e propria formola dossologica. Infine, eleva "un po'" l'ostia e il calice contemporaneamente. Anticamente, questa era l'unica elevazione, e tale è rimasta presso i Greci, e veniva compiuta con gran solennità, anche verso diversi punti cardinali, con copia di benedizioni, mentre in ambiente latino fu introdotta quella alla Consacrazione per contrastare le eresie che negavano la Presenza Reale, e dunque fu alquanto ridotto quanto a importanza. Nell'uso comune questa elevazione (essendo la fine del Canone) viene segnalata con un colpo di campanello, anche se questa usanza non è di origine romana, perché con la Elevazione maggiore alla Consacrazione il segnale si era trasferito lì e non doveva poi essere ripetuto anche qui (la prassi urbana, infatti, aborre la moltiplicazione di suoni del campanello che invece, da stampo gallicano, si diffuse in tutta Europa).

A questo punto, fino ai tempi di S. Gregorio Magno, si compiva anche la Fractio Panis, e qui ancora si trova nel Rito Ambrosiano. In ogni caso, quivi finisce il Canone e si passa poi ai riti della Comunione, e pertanto il sacerdote termina con le parole per omnia saecula saeculorum dette o cantate a voce alta.

Per quem haec omnia semper bona creas, sanctificas + vivificas + benedicis + et praestas nobis.

Per ipsum, et cum ipso, et in ipso, est tibi Deo Patri Omnipotenti omnis honor et gloria per omnia saecula saeculorum. Amen.
Per mezzo del quale voi sempre create, santificate, vivificate, benedite e concedete a noi tutti questi beni.

Per mezzo di lui, con lui ed in lui, vi spetta, o Dio Padre Onnipotente, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Fonti: sono indicati volta per volta gli autori da cui sono state prese delle parti
Prossima pubblicazione (settembre-ottobre): La Santa Messa XII - Dal Pater Noster alla Comunione

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