domenica 21 maggio 2017

Dominica V post Pascham



Vocem iucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúia: annuntiáte usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúia, allelúia
Iubiláte Deo, omnis terra, psalmum dícite nómini eius: date glóriam laudi eius.
Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen
Vocem iucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúia: annuntiáte usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúia, allelúia
(Antiphona ad Introitum)

Con questa domenica, detta secondo l'uso greco Ἐπισῳζομένη, dal momento che è l'ultima che precede la gran festa dell'Ascensione, ricorrente questo giovedì, termina la nostra preparazione alla salita al cielo di Gesù Cristo, rendendoci del tutto pronti ad accogliere il suo maestoso ricongiungimento al Padre. Ma essa è al contempo l'ultima delle domeniche pasquali, e come tali ci vengono un'ultima volta ricordati gl'incommensurabili doni ricevuti nella Risurrezione di Nostro Signore, il cui annunzio si è sparso per tutta la terra, come dice l'Introito, tratto da Isaia. Anche le lezioni patristiche del Mattutino si concentrano sul mistero pasquale, e in particolare sul significato della Pasqua del Signore. Cristo, fattosi uomo per esser messo a morte e poi risorgere - perché da un uomo era venuta la morte e da un uomo venne la vita - e per mezzo della sua Risurrezione tutta l'umanità è risorta a nuova vita, come scrive S. Ambrogio.

L'Ascensione, che in questa domenica vivamente attendiamo, diGiotto
Nell'epistola cattolica, S. Giacomo ricorda le parole di Gesù nel Vangelo, parlando di coloro che ascoltano la parola di Dio, ma non la mettono in pratica e non cambiano radicalmente la propria vita per conformarla agl'insegnamenti divini. Di costoro, l'Apostolo dice che son simili a quei che guardano il proprio volto allo specchio e poi, allontanatisi, dimenticano subito come sia fatto. Invece, la lettera c'invita a trasformarci interiormente a imitazione della perfezione del Risorto, secondo quanto ci suggerisce San Paolo, dicendo che "tra coloro nei quali si è compiuto il mistero pasquale, vi saranno alcuni che non persevereranno; e capiterà loro questa disgrazia perché si abbandoneranno al mondo invece di usarlo come se non l'usassero" (cfr. I Corinzi). La fede cattolica, infatti, non è un mero atto intellettuale, né è la sola partecipazione al culto divino, ma si compone di una serie di opere buone, senza le quali "la fede è morta": S. Giacomo parla dell'elemosina, il frenare la lingua, il visitare i bisognosi, ma soprattutto l'astenersi dal mondo e dalle sue lusinghe. In fondo Nostro Signore ha detto ai suoi: voi non siete del mondo, e fuori dal mondo dovremmo essere noi, in perfetta castità spirituale, secondo il modello che molte pie letture c'insegnano (una tra tutte, il Liber de Imitatione Christi, "manuale spirituale" di un monaco medievale sull'allontanamento dalle tentazioni secolari, il libro più apprezzato dai maggiori santi e mistici). 
Quanto è necessario questo discorso nel mondo odierno, ove veramente pochi Cristiani possono dirsi tali per professione, e anche quei pochi che superficialmente osservano i precetti religiosi, in massima parte non provano nessun isolamento interiore dal mondo, trascurano le opere di bene, e credono in Gesù Cristo per mero costume contratto! Quanti, col loro comportamento mondano, contrario ai precetti evangelici, infangano il buon nome dei Cristiani! Ma il mondo non dà soddisfazioni, anzi, svuota interiormente, fino a far perdere ogni briciolo di religiosità, che poi si perderà pure esteriormente: esso è l'inganno attraverso il quale l'uomo è condotto a perdizione, perché coloro che sono del mondo odiano l'uomo perfetto che abbiamo da imitare in Gesù, e perseguono invece volentieri la soddisfazione della carne e ogni altra cosa tanto piacevole quanto iniqua e dannosa per la vita eterna.
Rifuggire la vita gaudente, rifiutare le lusinghe del Maligno, come si è promesso nel Battesimo, per poter vivere in conformità collo spirito del Vangelo, spirito di umiltà e carità, è dovere primo di ogni cristiano. Chi infatti ha la sua mente rivolta a questo mondo, e dunque al principe di questo mondo - cioè Satana -, seduce il proprio cuore, e non ha una vera religione. Per questo è necessario abbandonare l'abito vecchio e rivestirsi dell'abito nuovo di Cristo Risorto, nel quale vi è purezza d'intenti e d'azioni, carità, pazienza e obbedienza, e nel quale la fede, unita alle opere, diventa veramente la religione pura e immacolata presso Dio Padre di cui parla l'Apostolo.

Allelúia, allelúia.
Surréxit Christus, et illúxit nobis, quos rédemit sánguine suo. Allelúia,
Exívi a Patre, et veni in mundum: íterum relínquo mundum, et vado ad Patrem. Allelúia.
(Piccolo e Grande Alleluia)

Due sono i temi della pericope evangelica da S. Giovanni: uno, trattato negli ultimi versetti, è quello della futura Ascensione, di cui, poco prima dell'Ultima Cena, Gesù dice chiaramente: "Son uscito dal Padre e son venuto nel mondo: ancor io lascio il mondo, e vo al Padre". Allo stesso modo noi, che siamo "usciti" dal Padre come sua creazione, abbiamo il dovere di tendere a ricongiungerci a lui, di ricercare il nostro Creatore e Redentore con tutta la mente, con tutto il cuore e con tutta l'anima, in ogni nostra azione, parola e pensiero, per poterlo raggiungere nel Santo Paradiso, cosa di cui godremo il giorno della nostra risurrezione, qualora avremo conformato la nostra vita ai precetti divini. Con fede di poterlo rivedere nella gioia sempiterna allora, molto più di quanta debbono averne avuta i discepoli dopo quel discorso, fatto loro di Giovedì Santo, giacché noi abbiamo visto la Risurrezione del Signore, dobbiamo contemplare l'Ascensione al Cielo di Nostro Signore, e dare un pristino addio alla sua comparsa terrena nei giorni pasquali, ma che non solo potremo rivedere nel Regno Celeste, ma finanche possiamo goderne la presenza ogni giorno, in tutte le S. Messe in cui egli s'incarna nuovamente nell'ostia e nel vino, per essere vittima d'espiazione nel perfetto Sacrificio.
Gesù Cristo orante
Tutta la prima parte della lezione, invece, riguarda i meriti e l'efficacia dell'orazione e dell'impetrazione a Dio, la quale di per sé - dice Nostro Signore - nemmeno sarebbe necessaria, giacché il Padre c'ama teneramente. Tuttavia, è bene pregare spesso e continuamente per le nostre intenzioni, e pregare sempre nel nome di Gesù, il quale prega per noi dal Cielo, perché qualunque cosa chiederemo nel suo nome, il Padre suo Celeste ce la concederà. S. Agostino precisa che per "in suo nome", non si deve intendere semplicemente esprimere una preghiera attraverso il nome di Gesù, ma secondo la volontà del Signore Gesù. ossia nell'interesse della salvezza delle anime nostre e del mondo intero. Spiega inoltre che ha detto "darò a voi", e quindi concederà sicuramente la grazia richiesta a coloro che la richiedono con fede e insistenza ("cercate e troverete, picchiate e vi sarà aperto"), ma non agli empi e agl'infedeli, anche qualora siano Santi coloro che pregano per le loro intenzioni, a meno che non si preghi per la loro redenzione, e in tal caso ben s'esaudirà la preghiera, essendo il desiderio di Nostro Signore Domineiddio che tutte le genti si convertano alla sua Verità.
Ed ecco pertanto che il cristiano deve chiedere al Signore che la sua gioia sia piena, la sua gioia spirituale, i cui frutti godremo al momento di dover accedere al Paradiso: non altro, perché in confronto alla grandezza del dono di una vita vissuta secondo i comandamenti divini, ogni altra cosa sarebbe nulla, e come tale chieder ciò anzi a Iddio è chieder nulla. Ogni cosa va chiesta nel nome di Cristo, in accordo con l'economia salvifica del Cristo e secondo la volontà di Cristo, così come (ricorda lo Schuster) il Padre ci ama, ci esaudisce, e ci innalza nella grazia e nella gloria per mezzo di lui dall'alto dei Cieli, siccome si dice nell'inno dossologico che il sacerdote recita alla fine del Canone Eucaristico: Per Ipsum, et cum Ipso, et in Ipso est tibi Deo Patri Omnipotenti in unitate Spiritus Sancti omnis honor et gloria.

Nella Chiesa Greca invece, secondo il proprio schema delle domeniche pasquali, la lezione non è tratta dalle epistole cattoliche ma dagli Atti degli Apostoli, nella loro sezione terminale (Paolo e il re Agrippa), mentre il Vangelo è quello del cieco nato (Johannes IX), in cui ancora viene ricordato il mistero pasquale (che per le ultime volte è grandemente presente nella liturgia, con la iterazione degli alleluia e del gioioso tropario Χριστὸς ἀνέστη): siccome infatti quel cieco fu portato dalla cecità alla vista, così per mezzo di Cristo e della sua Risurrezione tutta l'umanità è portata dalla morte alla vita.
Tanto nella tradizione romana che in quella greca, questa VI settimana del tempo Pasquale va a concludersi anticipatamente, ossia il mercoledì, per lasciar spazio alla solennità dell'Ascensione; nella liturgia latina, poi, questi ultimi tre giorni prima dell'Ascensione sono dedicati a una particolare preparazione (detta "Quaresima dell'Ascensione", ancorché ricorrendo in tempo pasquale non sia richiesto il digiuno, ma solo pratiche penitenziali di supplica quali le processioni delle Rogazioni).

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