mercoledì 28 febbraio 2018

Riapre il Santo Sepolcro

Alle 04.00 di questa mattina, il ritorno dei fedeli


Come preannunciato ieri sera, il Santo Sepolcro ha riaperto alle 04.00 (ora locale) di questa mattina i propri battenti dopo tre giorni di chiusura. Poco dopo, secondo testimonianze sul posto, sono arrivati i primi pellegrini. La decisione di riaprire il luogo è avvenuta dopo che i capi delle Chiese hanno giudicato con favore la mossa del premier Benyamin Netanyahu di congelare sia le tasse richieste dal comune di Gerusalemme sia la proposta di legge all’esame della Knesset sui terreni ecclesiastici. Due provvedimenti che avevano indotto le Chiese alla inusuale scelta di chiudere per protesta il Santo Sepolcro.

Fonte

martedì 27 febbraio 2018

Chiude la Basilica del Santo Sepolcro

[Fonte]

Le porte della Basilica del Santo Sepolcro sono state chiuse a tempo indefinito, dalla mattina di domenica 25 febbraio.
Si tratta di una protesta condivisa dalle tre comunità responsabili della basilica, il Patriarcato Greco Ortodosso, la Custodia di Terra Santa e il Patriarcato Armeno. A tema l’ultimo disegno di legge proposto dal governo israeliano sulle proprietà della Chiesa, oltre che i recenti provvedimenti fiscali ipotizzati dal Municipio di Gerusalemme.

“La nuova proposta di legge discriminatoria e razzista del governo – recita il comunicato - colpisce esclusivamente le proprietà della comunità cristiana in Terra Santa. Se approvata, renderebbe possibile l'espropriazione delle terre. I provvedimenti, si legge nel comunicato, sono considerati una grave violazione dello status quo esistente e un tentativo di indebolire la presenza cristiana in Città Santa.

Recentemente, questa campagna sistematica e offensiva ha raggiunto un livello senza precedenti, dal momento che il comune di Gerusalemme ha emesso scandalosi avvisi di raccolta e ordini di sequestro di beni, proprietà e conti bancari della Chiesa per presunti debiti delle tasse punitive comunali.

Un passo contrario alla posizione storica delle Chiese all'interno della Città Santa di Gerusalemme e al loro rapporto con le autorità civili.

Insieme a tutti i capi delle Chiese in Terra Santa – conclude il comunicato - siamo uniti, fermi e risoluti nel proteggere i nostri diritti e le nostre proprietà.”


Nel frattempo la basilica rimarrà inaccessibile e le liturgie e le celebrazioni si svolgeranno all’interno a porte chiuse.


Aggiornamento:
dichiarazione del Card. O’ Brien, Gran Maestro dell’ordine equestre del S. Sepolcro.

Cari Cavalieri e Dame, Confratelli e Consorelle dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro.

Gli eventi degli ultimi giorni a Gerusalemme sono preoccupanti e meritano una attenzione speciale da parte dell’Ordine.

Con una insolita e disperata iniziativa per mantenere viva la presenza cristiana nella Terra Santa, i capi delle chiese cristiane hanno deciso di chiudere le porte della Basilica del Santo Sepolcro per protestare contro la “sistematica campagna contro le chiese e la comunità cristiana in Terra Santa” della Municipalità di Gerusalemme.

Violando trattati internazionali e secoli di prassi, tutte le proprietà cristiane, ad eccezione dei soli edifici di culto, vengono tassate per decine di miliardi di dollari. Questa misura comprende centinaia di strutture, incluse scuole, ospedali, case per gli indigenti, presidi sanitari e centri di pellegrinaggio cristiani, come il Notre Dame Center a Gerusalemme. Molti beni di chiese sono stati bloccati, molte multe sono state minacciate, e centinaia di migliaia di dollari sottratti alle chiese cristiane in un tentativo di ridurre sensibilmente la libertà di pratica della religione cristiana.
Si tratta di atti discriminatori senza precedenti contro i cristiani.

Sollecito tutti i membri delle nostre Luogotenenze ad offrire preghiere alla luce di questa ennesima prova di discriminazione contro i cristiani. E in un momento in cui i Governi dei Paesi occidentali tendono a mostrare un riguardo speciale nei confronti di Gerusalemme, i membri potrebbero portare queste azioni discriminatorie anticristiane all’attenzione dei propri governanti.

Edwin Cardinale O’Brien
Gran Maestro

dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme

sabato 24 febbraio 2018

II Domenica di Quaresima - Canone di pentimento

Nel rito bizantino, la II domenica di Quaresima è dedicata, a partire dal 1368, alla memoria del santo monaco athonita e vescovo di Tessalonica Gregorio Palamàs (1296-1359), considerato il maggior teologo orientale una volta terminata l'età dei Padri, in virtù della sua prolifica produzione di apprezzatissime opere di mistica, teologia, antropologia ed ecclesiologia; da molti considerato come l' 'anti-Tommaso', riferendosi alle sue posizione talora in contrasto con l'Aquinate, è cionondimeno venerato come santo anche dalle Chiese Cattoliche Orientali, avvegnaché vissuto dopo il Grande Scisma.

Questa dedicazione, come abbiamo detto, non è però originaria: anticamente il santo ricordato questa domenica era il vescovo Policarpo di Smirne. Questa domenica era però soprattutto ricordato per l'appello ai catecumeni che il sacerdote rivolgeva, cantate le litanie dopo il Vangelo e il congedo degli stessi, esortandoli a prepararsi adeguatamente per la ricezione del Santo Battesimo durante la notte di Pasqua, giusta l'antica consuetudine. Di tale appello, scomparso dai tipici durante il Medioevo, possediamo una trascrizione grazie all'opera di Pavel Florenskij, dalla quale possiamo notare che il sistema con cui venivano ammessi al Sacramento i catecumeni era molto simile a quello in uso a Roma (per esempio, si accenna allo 'scrutinio di mezza Quaresima').

“Figli miei amatissimi! Conoscendo la vostra sincera fede nel Cristo e come voi stimiate il Santo Battesimo, vi esortiamo ora ancora una volta, in virtù dell’uso stabilito, per domandarvi questo: coloro che desiderano condurre al Battesimo salutare di Cristo qualcuno dei propri parenti, lo conduca dunque qui, nella santa chiesa, affinché, come conviene ai catecumeni, sia possibile istruirlo degli insegnamenti divini secondo le regole della fede. A volte in effetti succede che qualcuno si avvicini al santo mistero senza comprendere gli insegnamenti che gli sono proposti: in questo modo essi partecipano alla grazia senza conoscere assolutamente nulla. Chi dunque abbia con sé qualcuno in queste condizioni, lo conduca prima della domenica di metà quaresima poiché dopo quel giorno non permetteremo a nessuno, salvo casi di estrema necessità, di essere condotto senza esame al Battesimo nella prossima festa di Pasqua”.

Piuttosto che sulla Divina Liturgia, tuttavia, vogliamo qui soffermarci sull'Ufficio Divino, e particolarmente sul Mattutino, che è stato completamente riformato nel XIV secolo, venendo rielaborato sullo schema degli uffici dei Santi, in onore di S. Gregorio Palamàs. Vogliamo noi però andare invece a ricercare la forma precedente dell'ufficio, in cui troviamo, tra l'altro, un meraviglioso Canone, composto da S. Giuseppe l'Innografo, dedicato al tema dell'ascesi e della penitenza quaresimale, ma impostato soprattutto sulla riacquisizione da parte dell'uomo, attraverso la Passione, Morte e Risurrezione di Gesù Cristo, della somiglianza divina perduta col peccato originale. Il tema dominante di questo canone è la vicenda del Figliuol Prodigo, già trattata durante la prima domenica del tempo prequaresimale, ma in una prospettiva completamente diversa, a motivo del fatto che ora il cammino penitenziale è già iniziato, ed è già stato profondamente segnato durante le prime settimane (si pensi al probante ufficio del Canone di S. Andrea, con cui si apre la Quaresima bizantina).
Nei libri liturgici non si trova più traccia di questo meraviglioso poema, ma ne siamo a conoscenza grazie a delle ristampe dell'Ottocento in slavo ecclesiastico. Riportiamo di seguito alcuni frammenti ed estratti del Canone, per poterne gustare il meraviglioso sapore quaresimale:

Accoglietemi nella Vostra pietà, o Salvatore, mentre accorro con fede, come un tempo il figliuol prodigo, e concedetemi la liberazione dei miei mali, o Cristo: rendetemi degno di recuperare con purezza la bellezza primigenia, celebrando, o Signore, la Vostra ineffabile compassione

Donatemi, o Verbo, la primitiva bellezza che ho stoltamente perduta compiendo il male. 

Compassionevole Signore, Padre di ogni pietà, accogliete come il figliol prodigo colui che ritorna da vie di ogni malizia, e dando bellezza con le vesti dell’impassibilità fatemi aver parte, o buono, alla sorte di quanti Vi hanno perfettamente servito”

Accoglietemi convertito, o Padre, adornatemi con sacre vesti e rendetemi partecipe dei Vostri beni.

Accoglietemi nella mia conversione, Voi che possedete sconfinata ricchezza di bontà.

Nutrite con pensieri divini, o Cristo, colui che ha fame della Vostra grazia, e fatelo partecipe della Vostra gloria.

Corretemi incontro ed abbracciatemi, per le Vostre viscere di misericordia.

Apritemi le Vostre viscere pietose, ed abbiate compassione di me che con ardore mi getto davanti a Voi.

Fate splendere per me, giacente nella tenebra della perdizione, un raggio di pentimento, o Signore, e rendetemi splendente con le vesti di azioni virtuose, perché io sia degno del talamo spirituale e annoverato tra i figli del regno.

Lotta, affrettati, pèntiti prima che giunga il momento del taglio e tu sia reciso come albero sterile e mandato nella geenna. Dio vuole che tutti siano salvati e ti apre le Sue braccia.

Voi che non volete che nessun uomo si perda, fatemi tornare, o Verbo, perché ho deviato dal retto sentiero e come il figliol prodigo sono caduto nei precipizi e nei baratri del peccato: così io magnificherò il Vostro amore per gli uomini che oltrepassa ogni pensiero.

La terra e tutto il cielo insieme faranno festa, vedendo me pentito, o pietoso, accolto dalle Vostre sante viscere: celebreranno il Vostro amore per l’uomo e acclameranno apertamente: Gloria al solo nostro Dio, Che vuole che tutti siano salvati.

Ritengo si commentino da sola la poeticità e la spiritualità profonde di questi versi, che purtroppo il rito bizantino in una delle sue (pochissime) riforme liturgiche ha perduti. Vogliamo proporci cionondimeno di rileggerli e meditarli di sovente durante questa Quaresima, perché ci possano essere da 'metro' quando dovremo valutare a che punto sia giunto il nostro cammino di ritorno alla luce incommensurabile della maestà divina dall'abisso insondabile delle tenebre del peccato in cui siamo caduti. Dobbiamo intraprendere questo cammino, però, con la certezza che Cristo, con la sua Passione, Morte e Risurrezione, ci ha già acquistato la possibilità di riscatto, liberandoci dalle catene della morte e spalancandoci le porte del regno senza fine, e pertanto vogliamo inneggiare a Lui, in questo cammino verso la celebrazione di sì grandi misteri:

Per quanti camminano nelle tenebre dei peccati, siete sorto come luce o Cristo, nel tempo della continenza: mostrateci anche il giorno solenne della Vostra passione, affinché a Voi acclamiamo: Sorgete, o Dio! E abbiate pietà di noi.
(Tropario degli αἶνοι della II Domenica di Quaresima prima della riforma del 1368)

fonte rielaborata

venerdì 23 febbraio 2018

L'Inno Akathistos alla Theotokos - parte 2

Proseguiamo la pubblicazione dell'Inno Akathistos alla Madre di Dio, con la II stasi. Questa settimana proponiamo anche un commento sulla figura fondamentale della Madonna nell'economia salvifica, secondo la teologia orientale; in esso si può trovare la spiegazione di molti dei 144 epiteti, anche i più oscuri, con i quali viene salutata la Santa Vergine per 12 volte a ogni strofa dispari dell'Inno.

L'introduzione storica e la I stasi si trovano QUI.


Ὁ Ἀκάθιστος ὕμνος εἰς τὴν Ὑπεραγίαν Θεοτόκον - II

La figura della Theotokos nella teologia orientale

La figura della Theotòkos detiene un posto speciale nella coscienza dei fedeli d'Oriente. E’ la santa dei santi, la madre di Cristo e il principio della salvezza del genere umano. Questa sua eminente posizione è stata sottolineata particolarmente nella tradizione ecclesiastica, che ne ha inneggiato le virtù ed i carismi, glorificandola con elogi. La Chiesa, a causa del ruolo della Panaghìa nel mistero della divina incarnazione, l’ha circondata di profondo rispetto e di gran devozione, proponendola quale modello di santità, di perfezione e di divinizzazione dell’uomo. La figura della Madre di Dio, nel suo splendore eterno e intramontabile è un perenne invito al ritorno ai valori morali e agli obiettivi spirituali. La vergine Maria incarna nella tradizione orientale il vero prototipo della morale e della virtù.
La salvezza del mondo è la più alta aspettativa umana e in essa è riposta tutta l’opera dell’economia divina. La caduta allontanò l’uomo da Dio, conducendolo nella condizione del peccato, caratterizzata dalla corruzione della natura e dalla morte. Era impossibile per l’uomo decaduto salvarsi senza la rivelazione di Dio. La Panaghìa con la nascita di Cristo diventa il punto di partenza della salvezza del mondo. Come dunque viene compreso il ruolo della Madre di Dio nell’opera salvifica di Cristo? La posizione della Chiesa e della sua teologia è chiara: la Panaghìa è la Theotòkos, la Genitrice di Dio, colei che ha generato il salvatore del mondo. Questa fede è dimostrata con energia nella tradizione liturgica della nostra Chiesa. La Panaghìa viene iconografata, inneggiata e venerata insieme con il Cristo. Così, dunque, in tutte le arti che vengono utilizzate per esprimere l’insegnamento della Chiesa, traspare la verità della figura della Madre di Dio, sempre in relazione con il Figlio Suo.
L’umanità precedente la venuta di Cristo recava le conseguenze della maledizione dei progenitori, procurata da uno solo, Adamo, l’antenato di tutto il genere umano. La stirpe intera era afflitta dalle conseguenze di quella caduta che annichiliva e amareggiava tutta la natura. Giungendo però Cristo, il liberatore della natura, la maledizione venne trasformata in benedizione, avendo assunto la natura umana dalla purissima Vergine Maria. Per questa sua partecipazione e collaborazione viene riconosciuto giustamente onore e rispetto alla figura della Panaghìa. La partecipazione in particolare ha un significato assai profondo. In primo luogo significa adesione libera e volontaria alla volontà divina, spontaneo adeguamento ad essa e ancor di più, offerta pura e immacolata di tutto il suo essere in vista della realizzazione della salvezza del mondo intero.
Simboli e figure veterotestamentarie vengono riferite al ruolo della Panaghìa in riferimento alla salvezza e risurrezione del mondo. La Panaghìa Maria è la scala che fa salire gli uomini verso Dio e li guida dalla terra al cielo. E’ la porta da cui è uscito il salvatore.
La Vergine Maria in quanto persona umana, essa stessa diviene, mediante l’incarnazione, collaboratrice della salvezza del genere umano. Proprio dal V secolo la tradizione della Chiesa circa il ruolo e la persona della Madre di Dio diviene oggetto di grande riflessione e studio da parte dei padri della Chiesa anche all’interno delle discussioni sinodali che si svolgono durante la celebrazione dei Concili Ecumenici: sono secoli difficili e duri per la fede, sorgono figure di eresiarchi che tentano di ridimensionare e ridiscutere quanto la tradizione cristiana ha trasmesso nel culto e nella fede alle varie generazioni di credenti, attraverso persecuzioni e martirio. L’insieme stesso della Chiesa riesce a conservare il giusto rispetto e la degna venerazione che la Panaghìa merita. Questa venerazione si sviluppa in differenti modi: le feste a lei dedicate, con le solenni ufficiature, arricchite di esuberanti componimenti innografici; vengono edificate Chiese e cappelle a Lei dedicate, l’architettura e la poesia liturgica collaborano nell’esprimere la purezza della fede e della teologia divina. Ne viene sottolineata l’efficacia della mediazione e il particolare potere della sua intercessione presso Dio in relazione al raggiungimento della perfezione spirituale e alla salvezza individuale e cosmica. Tutto  ciò si spiega con il riconoscimento dell’eccelsa santità della Panaghìa e del purissimo e decisivo ruolo che ricopre nell’opera salvifica di Cristo. Ma anche la sua memoria, come pure l’imitazione della sua vita, delle sue virtù e delle sue attitudini spirituali vengono considerate un grande aiuto al compimento della salvezza degli uomini e questo proprio perché essa è il più perfetto prototipo umano della santità e imitarla significa imitare Cristo.
Gli scrittori ecclesiastici, nella totalità, esaltano le caratteristiche della personalità della Madre di Dio, che in qualche modo attirarono il divino assenso all’incarnazione di Dio. Secondo san Giovanni Damasceno si tratta in primo luogo del suo intelletto spirituale, sempre e soltanto rivolto verso Dio e indirizzato da Lui; il suo desiderio, unicamente sospinto dall’amore e dall’affetto per il Creatore, insieme con l’ira rivolta contro soltanto il peccato  e ciò che lo provoca. La condotta di vita mantenuta al di sopra della condizione naturale, dal momento che non viveva per se stessa, ma per Dio e per essere utile alla salvezza universale, in cui si inquadra anche la prospettiva della divinizzazione per grazia dell’uomo.
L’immagine più efficace della sublimità della condizione della Madre di Dio è fornita da Gregorio Palamàs attraverso una metafora comparativa tra le proprietà umane e quelle divine. E’ come se Dio avesse voluto, scrive il santo, abbellire una icona di ogni ornamento visibile ed invisibile attraverso un miscuglio di grazie divine ed umane, di straordinaria bellezza per adornare entrambi i mondi, quello sensibile e quello spirituale. Quando Dio completò, infine, questa icona, vide che era assolutamente corrispondente e somigliante all’immagine della Madre della luce.
Negli inni della Chiesa emerge la necessità del rafforzamento etico dell’animo umano, appesantito e indebolito dal peccato e dalla trascuratezza. Per questo l’anima che rivolge la sua preghiera alla Panaghìa, domanda quel rafforzamento necessario per opporsi al maligno. La sovreminente santità della figura della Theotòkos domina l’anima e il pensiero di Romano il Melode, come l’animo dell’umanità stessa. La Panaghìa viene inneggiata come pietra miliare e spartiacque di tutta la storia, avendo inaugurato un periodo che riceve senso e significato proprio dalla sua santità.
La Panaghìa, in quanto mediatrice, guida l’uomo verso Cristo e intercede per la sua salvezza. Nell’iconografia e nell’innografia che danno forma alle liturgie della Chiesa, nei poemi liturgici, come i canoni e l’Inno Akàthistos nei Theotokària, che sono le raccolte di poemi liturgici dedicati alla Theotòkos, nelle suppliche sacerdotali e diaconali, come poi in ogni tipo di componimento ad uso liturgico, la Theotòkos viene invocata per i fedeli come Madre di tutti. Si comprende ancor più chiaramente tutto questo dalle solennità a Lei particolarmente dedicate, in cui sono specificati tutti i temi cui abbiamo brevemente accennato, soprattutto la protezione e il rifugio che essa offre a tutti i cristiani.
La Panaghìa si trova molto vicino a Dio. Da questo sua prerogativa deriva anche la particolare parrisìa, cioè la confidenza e la franchezza con cui può rivolgersi a Lui, in favore del genere umano e di ciascun uomo, sempre ascoltata ed esaudita. Quando i fedeli rivolgono suppliche e preghiere a lei, come anche ai santi, questo non vuol dire che trascurano il Cristo salvatore: è Lui in definitiva a salvare il genere umano. Così cantiamo all’inizio della Divina Liturgia: Per le preghiere della Madre di Dio, Salvatore, salvaci.
In un antico inno di supplica risalente all’ottavo secolo, che i più antichi codici liturgici attribuiscono ora al monaco Teostiricto, ora ad un non precisato Teofane, il Canone della Paràclisi, che con l’Inno Akàthistos è il testo più diffuso nella devozione popolare bizantina, ci si rivolge alla Panaghìa con queste parole: Salva dai pericoli i tuoi servi, Madre di Dio, poiché dopo Dio è in te che tutti ci rifugiamo, inespugnabile baluardo e protezione. Questi concetti servono opportunamente a chiarire qual è il sentimento teologicamente corretto che la Chiesa propone non come un arricchimento facoltativo della spiritualità individuale, ma come un elemento costitutivo della fede e del dogma cristiano, senza il quale la nostra fede sarebbe gravemente mutila e di scarsa efficacia in vista della salvezza dell’anima e dell’umanità intera. I latini direbbero: Ad Jesum per Mariam
La salvezza e la speranza della risurrezione provengono dallo stesso unico Dio vivente. La possibilità della salvezza, comunque, è messa a disposizione agli uomini attraverso la Madre di Dio, la quale, fornendo il prototipo completo e perfetto della vita di santità, è in grado di guidare gli uomini verso la virtù e la conversione. Questa profonda e spontanea attenzione verso la figura della Madre di Dio nei termini che abbiamo descritto trae origine dall’esperienza religiosa dei primi cristiani. La Madre di Dio era stata sempre percepita come consolatrice degli afflitti e pronto soccorso per tutti quelli che la supplicano. Essa stessa si avvicina agli uomini, prova compassione per loro e desidera la salvezza di tutto quanto il mondo, con il suo abbraccio riunisce ognuno a Dio salvatore, sempre pronta a intervenire come mediatrice ben accolta con le sue intercessioni sempre esaudite presso lo stesso Creatore e Salvatore del genere umano da Lei generato. Con il suo intervento le molteplici situazioni umane complicate e appesantite dall’egoismo e dal peccato, vengono semplificate e risolte, i mali e i dolori si affievoliscono e tutto diventa sopportabile attraverso la pura e solida consolazione interiore che la sua presenza e il Suo intervento garantiscono.
E’ concessa dunque agli uomini una potente protezione nella figura della Panaghìa con le sua caratteristiche e prerogative: il male che assale l’uomo può essere arrestato, contenuto, arginato, ridimensionato, guarito. Essa sorveglia dall’alto compassionevole e sollecita, quale invincibile stratega, secondo le efficaci e realistiche parole dell’Inno Akàthistos, il gregge che è esposto ad assalti visibili ed invisibili da parte dei nemici e soprattutto da parte dell’antico e malvagio nemico e tiranno del genere umano. La mediazione della Madre di Dio è quel mezzo, che non solo da lustro al genere umano, ma soprattutto lo rafforza, avendo la forza di allontanarlo e preservarlo dal dominio dei mali interiori ed esteriori, dalle cattive abitudini e dalle loro cause. I fedeli supplicano la Theotòkos affinché guarisca le passioni delle loro anime e diradi gradualmente la nebbia della percezione carnale, questa coltre terrosa e pesante che grava sugli occhi dello spirito.
Spesso infatti la svogliatezza e l’ignavia tipica della natura umana e la greve materialità e carnalità del pensiero rendono l’uomo indolente verso la virtù, la quale richiede sforzo continuo e costante. Il perseguimento della virtù è impresa ardua ed esposta a numerosi intralci e impedimenti: tali e tante sono le tribolazioni, le preoccupazioni della vita e le tentazioni che circondano da ogni parte il credente, a tal punto da render necessaria e indispensabile la potente protezione della Panaghìa, sempre pronta a soccorrere e ad intervenire in favore di quanti la supplicano.
San Giovanni Damasceno sostiene che l’esistenza umana sarebbe vuota e persino disumana per i credenti se non avessero la Madre di Dio con cui conversare e a cui domandare protezione e consolazione. La Madre di Dio, grazie alla sua vicinanza con Dio e alla sua partecipazione alla condizione della natura umana, come qualsiasi altro essere umano, diviene il chirografo, il documento, l’attestato scritto di correzione mediante il quale la creatura è riconciliata con il Creatore. 
La particolare posizione della Panaghìa nella vita religiosa dei fedeli riveste le stesse caratteristiche che la sua persona e il suo ruolo nelle vicende storiche della salvezza hanno espresso. La pietà personale diffusa nel popolo credente ha inneggiato le sue virtù e la sua santità dedicandole attributi e appellativi che potevano esprimerne e tratteggiarne le qualità interiori. La grandezza della sua figura viene percepita molto intensamente nelle anime religiose come la grande Madre, protezione e soccorso nei bisogni spirituali, ma anche nelle necessità e nelle lotte quotidiane. Nell’iconografia mariana bizantina contemporanea, depositaria e continuatrice dell’arte raffigurativa cristiana tradizionale antica, come ben testimoniato anche nell’arte cristiana occidentale delle origini, la Madre di Dio è rappresentata, com’è noto, con il bambino Gesù fra le braccia: è questa l’immagine che la pietà popolare cristiana ha sempre conosciuto dalle origini, dalla Mesopotamia alla penisola Iberica, dall’Etiopia alla Georgia, dall’Armenia all’Irlanda; questa immagine, questo tipo di icona ha ispirato nei cristiani di tutti i luoghi e di tutte le epoche, le più genuine e liriche espressioni di amore e fiducia. Nella tradizione locale dell’isola di Rodi, ad esempio, la Madre di Dio è stata celebrata solennemente dedicandole innumerevoli chiese e monasteri con titoli e dedicazioni che assomigliano molto nel concetto e nell’immagine alle espressioni che spesso riscontriamo anche in occidente, come la Panaghìa delle Grazie, del Patrocinio, la Regina dell’universo, oppure con espressioni che ricordano un particolare toponimo o avvenimento, come la Panaghìa del castello, del deserto o dell’apparizione.

Molti padri della Chiesa dichiarano di non avere a disposizione, né il coraggio, né le parole necessarie per poter descrivere o elogiare l’eccellenza e l’altezza della santità della Theotòkos. Per poter parlare di Lei in modo adeguato, è necessario possedere molta purezza nell’anima e nel corpo; siccome è piuttosto difficile con le proprie forze raggiungere una condizione del genere, è proprio a Lei che bisogna chiedere la liberazione e il distacco del cuore dalle passioni carnali e dai desideri materiali. Solo chi si innalza verso una purezza simile alla Sua sarà in grado di celebrarne degnamente la santità.

II STASI

La II stasi conclude il racconto storico, che non è solo storico ma anche e soprattutto teologico, dell'Incarnazione e dell'Infanzia di Cristo, presentandoci l'adorazione dei pastori (stanza 7), l'arrivo e l'adorazione dei magi (stanze 8-10), la fuga in Egitto (stanza 11), l'incontro con Simeone (stanza 12).


giovedì 22 febbraio 2018

In Cathedra S. Petri Apostoli Antiochiae

22 febbraio
Cattedra di S. Pietro Apostolo in Antiochia
paramenti bianchi - doppio maggiore - Messa "Statuit ei"
Comm. di S. Paolo Apostolo e, se cade in Quaresima, della Feria

Guido Reni, Consegna delle Chiavi a S. Pietro, 1625

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Quodcúmque in orbe néxibus revínxeris,
erit revínctum, Petre, in arce síderum:
et quod resólvit hic potéstas trádita,
erit solútum cæli in alto vértice;
in fine mundi judicábis sǽculum.

Qualunque cosa sulla terra legherete,
sarà legato, o Pietro, nella celeste rocca:
e ciò che scioglierà quaggiù il poter concessovi,
sarà sciolto pur nell'alto del cielo;
alla fine del mondo voi giudicherete il secolo.

(Vespero della Cattedra di S. Pietro
inno attribuito ad Elpidia)

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Antiochíæ Cáthedra sancti Petri Apóstoli,
ubi primum discípuli cognomináti sunt Christiáni

Ad Antiochia, la Cattedra dell'Apostolo San Pietro,
laddove per la prima volta i discepoli furono chiamati Cristiani.
(Martirologio Romano)

Secondo la Tradizione, suffragata dai riferimenti nelle Sacre Scritture, il principe degli Apostoli San Pietro, prima di giungere a Roma, fondò e resse la Chiesa Antiochena, attorno all'anno 38; ad Antiochia è situata anche, dagli Atti degli Apostoli, la famosa disputa sui costumi giudaici tra San Pietro e San Paolo. La tradizione per cui San Pietro abbia ricoperto l'incarico di primo vescovo della città siriana è testimoniato dalla presenza di un'antichissima chiesa, quasi risalente all'età dell'apostolo, incastonata nella pietra e per tal motivo denominata "Grotta di S. Pietro" (in basso), probabilmente eretta sui resti di un antico santuario pagano. In tale chiesa si custodisce una copia della Cattedra lapidea ove il Santo Apostolo sedette come pastore della Siria. La Cattedra originale è custodita a Venezia, nella Basilica Concattedrale di S. Pietro di Castello, essendo stata donata, nel IX secolo, al Doge Pietro Tardonico da parte dell'Imperatore Michele III (a destra).

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Sermone di S. Agostino per la festa della Cattedra di S. Pietro
(XV per le feste dei Santi)

L'istituzione dell'odierna solennità ricevé dai nostri antenati il nome di Cattedra, perché è tradizione che Pietro, principe degli Apostoli, prendesse possesso quest'oggi della sua sede episcopale. I fedeli perciò, con ragione, celebrano l'origine di quella Sede onde l'Apostolo fu investito per la salute delle chiese con quelle parole del Signore: «Tu sei Pietro, e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa». Il Signore dunque ha chiamato Pietro il fondamento della Chiesa: ed è perciò che la Chiesa venera giustamente questo fondamento sul quale poggia tutto l'edificio ecclesiastico. Quindi ben a ragione si dice nel Salmo ch'è stato letto: «Lo esaltino nell'adunanza del popolo, e lo lodino nel consesso dei seniori» Benedetto Dio, che prescrive d'esaltare il beato Pietro Apostolo nell'adunanza del fedeli; è giusto infatti che la Chiesa veneri questo fondamento per cui si sale al cielo. Celebrando dunque quest'oggi l'origine della Cattedra, noi onoriamo il ministero sacerdotale. Le chiese si rendono questo mutuo onore, comprendendo esse che la Chiesa tanto più cresce in dignità, quanto più viene onorato il ministero sacerdotale. Avendo dunque una pia usanza introdotto giustamente nelle chiese questa solennità, mi meraviglio delle grandi proporzioni che ha preso oggi un pernicioso errore tutto pagano, di portare cioè sulle tombe dei defunti dei cibi e del vino, come se le anime, che hanno abbandonato i loro corpi, reclamassero questi cibi propri della carne.


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Ricorre oggi anche la festa patronale della FSSP (Fraternitas Sacerdotalis Sancti Petri),
benemerito istituto che si occupa di preservare il rito romano antico.

Ai membri della Fraternità e della Confraternita di S. Pietro si concede oggi l'indulgenza plenaria alle solite condizioni.

Preghiera della Confraternita di S. Pietro
Post decadem Rosarii dicant:

V. Memento, Domine, congregationis tuæ.
R. Quam possedisti ab initio

Oremus. Domine Jesu, in testimonium Veritatis natus, qui usque in finem diligis quos elegeris, exaudi benigne preces nostras pro nostris pastoribus. Tu qui omnia nosti, scis quia amant Te et omnia possunt in Te qui eos confortas : sanctifica eos in Veritate, infunde eis, quæsumus, Spiritum quem Apostolis tuis dedisti, qui eos in omnibus Tui similes efficiat. Accipe quod Tibi tribuunt testimonium amoris, qui triplici Petri confessioni benignus annuisti. Et ut oblatio munda sine intermissione Sanctissimæ Trinitati ubique offeratur, novam eis propitius adjunge prolem, et omnes jugiter in Tua serva caritate, qui cum Patre et eodem Spiritu Sancto unus es Deus, cui gloria et honor in sæcula. Amen.

lunedì 19 febbraio 2018

Preghiera di S. Efrem il Siro

La preghiera più caratteristica della Grande Quaresima è senza dubbio la breve supplica composta dal monaco S. Efrem il Siro, che viene recitata, con numerose prostrazioni, durante tutti gli uffici bizantini del tempo quaresimale.

Da essa si comprende la prospettiva nella quale si pone il cristiano praticante, che vuole seguire in tutto non solo l'ortodossia (la retta dottrina), ma anche l'ortoprassi (la retta pratica di vita spirituale). Tutto ciò che ripiega la persona su se stessa (ozio, curiosità, superbia, loquacità, giudizio del fratello) viene rigettato. Viene fermamente richiesto quanto appartiene alla pura oblatività (saggezza, umiltà, pazienza, amore) nella serena considerazione della propria creaturalità (vedere le mie colpe). Naturalmente tutto ciò non è finalizzato ad acquisire una moralità che edifichi gli altri. Si può dire che sia paragonabile all'attenzione del funambolista il quale, se vuole attraversare la corda e giungere alla fine del suo esercizio, prende le dovute precauzioni. Queste precauzioni sono ripresentate alla memoria, durante il momento liturgico, e domandate a Dio. Senza di esse non c'è spirito quaresimale ma non c'è neppure Cristianesimo dal momento che il Cristianesimo è una realtà che si vive e che, alla fine, coincide con il Cristo stesso.

TESTO GRECO

Ποιοῦμεν τὰς τρεῖς μεγάλας μετανοίας, Εἶθ' οὕτω, λέγομεν καθ' ἑαυτοὺς καὶ ἕνα στίχον τῆς Εὐχῆς: 
Κύριε καὶ Δέσποτα τῆς ζωῆς μου, πνεῦμα ἀργίας, περιεργίας, φιλαρχίας, καὶ ἀργολογίας μή μοι δῷς.
Πνεῦμα δὲ σωφροσύνης, ταπεινοφροσύνης, ὑπομονῆς, καὶ ἀγάπης χάρισαί μοι τῷ σῷ δούλῳ.
Ναί, Κύριε Βασιλεῦ, δώρησαι μοι τοῦ ὁρᾶν τὰ ἐμὰ πταίσματα, καὶ μὴ κατακρίνειν τὸν ἀδελφόν μου, ὅτι εὐλογητὸς εἶ εἰς τοὺς αἰῶνας τῶν αἰώνων. Ἀμήν.
Μετὰ δὲ ταύτας, ἑτέρας μικρὰς ιβ' λέγοντες καθ' ἑκάστην
Ὁ Θεὸς, ἰλάσθητί μοι τῷ ἀμαρτωλῷ, καὶ ἐλέησόν με.
Kαὶ πάλιν μετάνοιαν μεγάλην, καὶ τὸν τελευταῖον στίχον τῆς ἀνωτέρω Εὐχῆς:
Ναί, Κύριε Βασιλεῦ, δώρησαι μοι τοῦ ὁρᾶν τὰ ἐμὰ πταίσματα, καὶ μὴ κατακρίνειν τὸν ἀδελφόν μου, ὅτι εὐλογητὸς εἶ, εἰς τοὺς αἰῶνας τῶν αἰώνων. Ἀμήν.

TESTO SLAVO

Господи и владыко живота моегω, духъ праздности, оунынїѧ, любоначалїѧ и празднословїѧ не даждь ми.
Духъ же цѣломѹдрїѧ, смиренномѹдрїѧ, терпѣнїѧ и любве, дарѹй ми рабѹ твоемѹ.
Ей Господи Царю, даруй ми зрѣти моѧ прегрѣшенїѧ, и не ωсуждати брата моегω, якω благословенъ еси во вѣки вѣковъ. Аминь

TRADUZIONE E NOTE

Si fanno tre grandi prostrazioni, dicendo per ciascuna uno stico della preghiera: 
Signore e Padrone della mia vita, non datemi (1) uno spirito di ozio, di curiosità (2), di superbia (3) e di loquacità.
Fate invece dono al vostro servo di uno spirito di saggezza (4), pentimento, pazienza e carità.
Sì, o Signore e Sovrano, donatemi di vedere i miei peccati, e di non giudicare il mio fratello, poiché voi siete benedetto nei secoli dei secoli. Amen.
Dopodiché, si fanno dodici piccole prostrazioni, dicendo per ciascuna:
O Dio, siate propizio a me peccatore, e abbiate misericordia di me. (5)
E di nuovo una grande prostrazione, dicendo l'ultimo stico della pregheira:
Sì, o Signore e Sovrano, donatemi di vedere i miei peccati, e di non giudicare il mio fratello, poiché voi siete benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

(1) La versione slava pre-nikoniana ha ωтжεни ѿ мεнε, che significa "togli da me". Questo errore (non in linea con la grande tradizione monastica orientale, come si può vedere dai discorsi dell'abate Isaias di Sketis [V secolo], che afferma che ogni spirito, anche negativo viene da Dio in qualche modo) è stato corretto nella revisione dei testi del XVII secolo in не даждь ми. La versione precedente è ancora usata dai Vecchi Credenti.
(2) La revisione nikoniana ha però mantenuto (così come aveva quella pre-riforma) la parola оунынїѧ, che significa piuttosto "negligenza, scoramento", e traduce il greco ἀκηδίας. Sono però stati trovati tardi manoscritti greci che presentavano tale parola al posto di περιεργίας, e dunque è probabile che Nikon avesse utilizzato uno di questi.
(3) Nei testi pervenutici ci sono in realtà alcune varianti: alcuni testi, anziché φιλαρχίας, hanno φιλαργυρίας, ossia "avidità". Tale è anche il significato di празднословїѧ, segno che tale tradizione manoscritta è stata accettata da coloro che hanno tradotto in slavo ecclesiastico la preghiera. In Italiano traduciamo "superbia", anche se questo termine non è il più adatto, ove la traduzione letterale sarebbe "brama di essere superiore". Per distinguere, quando nel commento tradurremo "superbia", sarà questa brama di superiorità; quando tradurremo "orgoglio", sarà più propriamente il sentirsi superiori agli altri.
(4) E' interessante notare che gli inglesi traducono σωφροσύνης come "chastity", secondo il significato del termine nell'inglese medievale, che non indica solo la "castità", ma più in generale la discrezione, la prudenza e la solidità della mente, il che calza perfettamente al senso profondo del termine greco.
(5) Nell'uso slavo si usa fare le dodici prostrazioni dicendo semplicemente Господи, помилуй (Signore, abbiate misericordia). Infatti, la traduzione dello stico non è riportata nel TESTO SLAVO trascritto sopra.

COMMENTO
tradotto e adattato da uno scritto di p. Alexandros Smeman

Perché questa breve e semplice preghiera occupa un posto così importante nell'intero culto della Grande Quaresima? Essendo di fatto una lista di tutti gli elementi negativi e positivi dello spirito, costituisce, per così dire, una "regola" della nostra lotta spirituale nel periodo quaresimale. Questa lotta mira anzitutto alla nostra liberazione da alcune malattie spirituali di base, che infestano le nostre vite e ci rendono incapaci di rivolgerci a Dio.

La pigrizia
La prima malattia è la pigrizia. La pigrizia è quella strana passività del nostro essere, che ci spinge sempre verso il basso, piuttosto che in alto, e costantemente ci convince che non è possibile cambiare, e quindi non c'è bisogno di voler cambiare. E' un cinismo profondamente radicato, che blocca ogni sfida spirituale con un "Perché", e manda in pezzi la nostra vita spirituale. Questa è la radice di tutti i peccati, perché avvelena ogni energia spirituale fino alla sua fonte più profonda.

La curiosità
Il risultato della pigrizia è la curiosità. E' uno stato di vigliaccheria che tutti i Padri della Chiesa considerano il più grande pericolo dell'anima. Stanchezza, scoraggiamento, l'incapacità dell'uomo di vedere tutto ciò che è buono o positivo! E' la riduzione di tutto alla negatività e al pessimismo. E' davvero un potere demoniaco, perché Satana è fondamentalmente un bugiardo: sussurra bugie all'uomo su Dio e il mondo, riempie la vita di oscurità e negatività. E' il suicidio dell'anima, perché quando un uomo ne è posseduto è totalmente incapace di vedere e volere la luce.

La superbia
Ah, lo spirito di superbia! Sembra strano, ma la pigrizia e lo sconforto sono proprio quelli che riempiono la nostra vita di superbia. Tutto il nostro atteggiamento verso la vita viene infettato, e siamo spinti a cercare la superiorità, un atteggiamento radicalmente sbagliato nei confronti degli altri
Se la mia vita non è orientata a Dio, se non è attratta dai beni eterni, inevitabilmente diverrà egoista ed egocentrica, il che significa che tutti gli altri diventano mezzi della propria auto-soddisfazione. Se Dio non è il mio Signore e Maestro di vita, il mio ego allora diventa la mia guida, il centro assoluto del mio mondo, e prendo ad apprezzare tutto sulla base delle mie esigenze, delle mie idee, dei miei desideri e le mie valutazioni.
Quindi, lo spirito di superbia diventa il mio peccato principale nelle relazioni con gli altri: diventa una ricerca della loro sottomissione a me. La superbia non sempre si esprime come un desiderio di ordinare e sottomettere gli altri; può essere anche espresso come indifferenza, disprezzo, mancanza di interesse, di attenzione e rispetto. Ed è proprio la superbia, insieme alla curiosità, che, rivolgendosi agli altri, aggrava il suicidio spirituale con l'omicidio spirituale.

Loquacità
Infine, la loquacità. L'uomo, generalmente, è dotato della capacità di parlare. Tutti i Padri vedono in questo dono il "sigillo" dell'immagine divina, perché Dio stesso è stato rivelato come il Verbo (cfr. S. Giovanni I, 1).
Ma il dono supremo è anche il rischio più forte. Così come può essere l'espressione dell'uomo e il mezzo della realizzazione personale, per la stessa ragione, è il mezzo della caduta, dell'autodistruzione, del tradimento e del peccato. La parola salva e la parola uccide, la parola salva e la parola avvelena. La parola è il centro della verità, ma è anche un mezzo per la menzogna demoniaca.
Pur avendo un potere fondamentalmente positivo, la parola, allo stesso tempo, ne ha uno terribilmente negativo. La parola può essere positiva o negativa. Quando è distaccata dalla sua origine divina, il suo scopo divino si trasforma in loquacità. Ciò va ad aggiungersi alla pigrizia, alla curiosità e alla superbia, trasformando la vita in un inferno, e facendo dominare il peccato.
Questi quattro punti sono quelli negativi del pentimento, sono gli ostacoli sul nostro cammino. Ma solo Dio può spostarli. Ecco perché la prima parte di questa preghiera è un grido proveniente dal profondo del cuore dell'uomo indifeso. Quinci, la preghiera si sposta verso gli scopi del pentimento.

La saggezza
La saggezza. Bisogna interpretare rettamente il significato di questa parola, spesso fraintesa: potrebbe essere la controparte positiva della parola pigrizia. Il "salto", anzitutto, è la rottura della nostra inerzia, dell'incapacità di vedere globalmente. Pertanto, questa sanità di mente nel vedere il tutto è totalmente il contrario alla pigrizia.
Anche se si è abituati a interpretare la parola saggezza in un dato modo, essa rappresenta piuttosto la totalità che Cristo riporta dentro di noi, e lo fa ripristinando la vera scala di valori e facendoci tornare a Lui.

L'umiltà
Il primo e meraviglioso frutto della saggezza è l'umiltà. Soprattutto, è la vittoria della verità in noi, la rimozione della menzogna in cui viviamo. Solo l'umile è degno della verità, solo l'umile può vedere e accettare le cose come sono, e in tal modo vedere Dio, la sua grandezza, la sua benevolenza e il suo amore in ogni cosa. Ecco perché, come sappiamo, Dio "disperde i superbi e dà grazia agli umili.

La pazienza
Dopo la saggezza e l'umiltà, naturalmente, segue la pazienza. L'uomo falso è impaziente, perché è cieco a se stesso e frettoloso nel giudicare e condannare gli altri. Con una conoscenza scarsa, incompleta e distorta delle cose, considera tutto in base alle sue preferenze e idee. E' indifferente a tutti quelli che lo circondano, eccetto se stesso, vuole che la sua vita abbia successo, in quel preciso istante.
La pazienza, ovviamente, è una virtù veramente divina. Dio è paziente non perché sia "condiscendente", ma vede la profondità di tutte le cose, perché la loro realtà interna, che nella nostra cecità non possiamo vedere, si svela solo in Lui. Più ci avviciniamo a Dio, più diventiamo pazienti e più riflettiamo su questo amore infinito per tutti gli esseri, che è l'attributo principale di Dio.

Amore
Infine, il culmine e il frutto di tutte le virtù, di ogni sforzo, è l'amore. Questo amore, che, come abbiamo detto, può essere dato solo da Dio, è lo scopo di ogni preparazione spirituale ed esercizio. 

Orgoglio
Questa parola riassume la richiesta finale della preghiera di San Efrem. Qui, alla fine, c'è solo un pericolo: l'orgoglio. L'orgoglio è la fonte del male, e tutto il male è orgoglio. Tuttavia, non è abbastanza per me il vedere i peccati, perché anche questa apparente virtù può essere trasformata in orgoglio. I testi patristici sono pieni di avvertimenti circa la forma insidiosa di sopraelevazione  che si nasconde sotto le vesti di umiltà e di autoaccusa ("falsa umiltà"), e che può portare ad un orgoglio veramente demoniaco. Ma quando vediamo i nostri difetti e non critichiamo i nostri fratelli, quando in altre parole, la saggezza, l'umiltà, la pazienza e l'amore sono una cosa sola in noi, allora e solo allora l'eterno nemico -l'orgoglio- sparirà da noi. 

sabato 17 febbraio 2018

Il salmo XC nella liturgia della I domenica di Quaresima

Nella liturgia della I domenica di Quaresima tutte le antifone sono tratte dal salmo 90. Di seguito riportiamo il commento che fa il Card. Schuster a riguardo del canto di questo salmo in questa domenica.

Tratto da: Card. A. I. Schuster, OSB, "Liber Sacramentorum" - III. La Sacra Liturgia dalla Settuagesima a Pasqua

Nell'odierna messa, gli onori della festa sono tutti pel salmo 90, quello citato appunto al Cristo dal Satana tentatore. Noi lo ripeteremo all'introito, al graduale, all'offertorio e al communio, quasi in atto di protesta e di riparazione per la suggestione temeraria. D'altra parte, il salmo 90 esprime così bene i sentimenti dell'anima che ritorna a Dio per la penitenza ed in lui ripone ogni sua fiducia, che la Chiesa ne ha fatto come il carme quaresimale per eccellenza.

Incomincia l'introito coll'esprimere le magnifiche promesse che fa Iddio ad un'anima che a lui ricorre: "Egli m'invocherà ed io lo ascolterò; io lo scamperò dai pericoli e l'esalterò; gli darò lunghi anni di vita".

La colletta è la seguente: "O Dio che annualmente purifichi la tua Chiesa mediante l'astinenza quaresimale; fa sì che la tua famiglia renda fruttuose, mediante le buone opere, quelle grazie che si studia d'impetrare colla sottrazione dei cibi".

[...]

Il responsorio graduale preannunzia in onore di Gesù quel medesimo ossequio che tutti gli Angeli debbono al Caput hominum et Angelorum, e da cui poi nel Vangelo il Satana trarrà appunto motivo per tentarlo. "A tuo riguardo Dio comandò agli Angeli suoi di custodire dappertutto i tuoi passi. Essi ti leveranno sulle palme, perché il tuo piede non inciampi". Questo verso si riferisce al Cristo nella sua umanità santissima e nel suo mistico corpo. Il servigio degli Angeli a Gesù nell'umanità sua, è un servigio di doverosa adorazione, non di bisogno che il Redentore potesse avere dell'aiuto degli spiriti angelici. La custodia poi della Chiesa e dei fedeli commessa ai santi Angeli, da parte di Gesù è un atto di vera degnazione, ammettendo quei beati spiriti alla gloria di cooperare con lui alla salvezza degli uomini. Da parte poi degli Angeli, questa tutela, oltre ad essere un doveroso servigio che rendono al Salvatore nel suo mistico corpo, è un ufficio che loro massimamente compete, in quanto riflettono cosi sopra le creature di grado alquanto inferiore al loro, quella luce e quella grazia che essi attingono alle sorgenti divine. Così appunto dal centro d'un circolo, nulla arriva alla circonferenza, se non per mezzo dei raggi.

Da parte nostra poi, il ministero e la custodia dei santi Angeli corrisponde a un vero bisogno, e l'aiuto è affatto proporzionato alla necessità. Dovendo infatti sostenere la lotta contro i demoni, spiritualia nequitiae in coelestibus, come li chiama san Paolo, è necessario che altre creature spirituali buone e più potenti vengano in nostro aiuto e siano pari anzi superiori ai nostri terribili avversari. Di più, i predestinati, giusta il sentimento dei Santi Padri, debbono riempire i vuoti lasciati nelle falangi angeliche dalla defezione di Lucifero e dei suoi seguaci. È quindi conveniente che gli Angeli buoni cooperino con Gesù Cristo a reintegrare le loro schiere.

Il salmo tratto, neppure a dirlo, oggi è il 90: "Dimorando nel riparo dell'Altissimo ed albergando all'ombra del Potente, dico a Iahvè, mio refugio, mia fortezza, al quale m'affido. Poiché egli ti salverà dal laccio, dalla tagliuola, e dalla fossa del precipizio; sotto i suoi vanni ti ricetterà, sotto le ali sue ti rifugerai. Scudo è la verità sua, né temerai all'incubo della notte. Né la freccia volante di giorno, né la peste che vagola al buio, né il maligno desolante in sul meriggio. Al fianco tuo ne cadranno mille, e diecimila alla tua destra, eppure a te non s'avvicineranno. Perché a tuo riguardo comanda ai suoi angeli di custodirti in tutte le tue vie. Essi ti leveranno sulle palme, ché il tuo piede non inciampi nei sassi; sul rettile e sulla vipera tu camminerai, calpesterai il lioncello e il drago. Poiché egli è congiunto a me, io lo salverò; lo proteggo perché confessa il nome mio. Egli m'invochi ed io gli risponderò; con lui sarò nella tribolazione; lo salverò, lo glorificherò; di lunga copia di giorni lo sazierò, e a lui rivelerò il mio Salvatore".

È da notarsi, che originariamente il graduale e il tratto non solo avevano due posti distinti, cioè dopo la prima e la seconda lezione scritturale, ma anche come genere di salmodia melodica differivano completamente. L'odierno tratto è uno dei pochi esempi superstiti dell'estensione che aveva prima questo canto, il quale constava ordinariamente d'un intero salmo.

L'antifona del salmo offertoriale è la seguente: "Iddio ti ricetterà sotto i suoi vanni; sotto le sue ali ti ricetterai; egida è la sua verità". [...] L'antifona ad Communionem è identica all'offertorio.

[...]

Manca nell'odierno Messale del Tridentino così il prefazio proprio di questa prima domenica, che la colletta sopra il popolo prima di congedarlo di chiesa. Questa si ritrova però tanto nel Gelasiano, - il Leoniano è mutilo da principio - che nel Gregoriano. Eccola: "Ti supplichiamo, o Signore, perché discenda copiosa la tua benedizione sul tuo popolo; la quale c'infonda consolazione, rafforzi la santa fede, renda saldi nella virtù coloro che da te sono stati riscattati".

SALMO 90

(greco LXX, latino Vulgata, italiano Martini 1776)

Il tratto della I domenica di Quaresima secondo la melodia gregoriana
(Graduale Romanum)

Il tratto della I domenica secondo un'antica melodia romana (VIII secolo)

parte I
parte II
P.S.: notare le affinità del canto romano antico con la musica bizantina, con la quale condivide l'origine. Il canto gregoriano attuale non è altro che il risultato della fusione tra il canto grecoromano antico, di cui questi video sono un ottimo esempio, e l'uso musicale franco (gallicano).

venerdì 16 febbraio 2018

L'Inno Akathistos alla Theotokos - parte 1

Per tutta questa Quaresima 2018 pubblicheremo, a puntate, il testo dell'Inno Akathistos alla Santissima Madre di Dio, corredato da un commento storico e testuale. La suddivisione proposta è quella nelle normali quattro stasi che si usa liturgicamente nel rito bizantino; ciascuna stasi viene cantata all'interno dell'officio della Piccola Compieta dei venerdì sera delle prime quattro settimane della Grande Quaresima. Il venerdì dell'ultima settimana l'inno viene cantato integralmente.


Ὁ Ἀκάθιστος ὕμνος εἰς τὴν Ὑπεραγίαν Θεοτόκον

Introduzione - Storia dell'Inno

L'Inno Akathistos (dal greco: 'non-seduti', ossia la rubrica che stava all'inizio di quest'inno nelle prime edizioni, poiché per rispetto a quest'inno si assiste in piedi, come al Vangelo) è uno dei testi dedicati alla Beata Vergine Maria più cari alla tradizione orientale, tanto da divenire modello per numerosi akathisti nei secoli successivi, dedicati a diversi santi o a Nostro Signore.

La struttura metrica e sillabica dell'Akathistos si ispira alla celeste Gerusalemme descritta dal cap. XXI dell'Apocalisse di S. Giovanni, da cui desume immagini e numeri: Maria è cantata come identificazione della Chiesa, quale "Sposa" senza sposo terreno, Sposa vergine dell'Agnello, in tutto il suo splendore e la sua perfezione.

L'inno consta di 24 stanze (in greco: οἷκοι, iki), quante sono le lettere dell'alfabeto greco con le quali progressivamente ogni stanza comincia. Ma fu sapientemente progettato in due parti distinte, su due piani congiunti e sovrapposti - quello della storia e quello della fede -, e con due prospettive intrecciate e complementari - una cristologica, l'altra ecclesiale -, nelle quali è calato e s'illumina il mistero della Madre di Dio. Le due parti dell'inno a loro volta sono impercettibilmente suddivise ciascuna in due sezioni di 6 stanze. Queste quattro sezioni costituiscono le quattro 'stasi' in cui è tuttora suddiviso l'inno durante la liturgia. L'inno tuttavia procede in maniera binaria, in modo che ogni stanza dispari trova il suo complemento - metrico e concettuale - in quella pari che segue. Le stanze dispari si ampliano con 12 salutazioni mariane, raccolte attorno a un loro fulcro narrativo o dogmatico, e terminano con l'efimnio (ἐφύμνιον), cioè il ritornello di chiusa: "Gioisci, sposa senza nozze!". Le stanze pari invece, dopo l'enunciazione del tema quasi sempre a sfondo cristologico, terminano con l'acclamazione a Cristo: "Alleluia!". Così l'inno si presenta cristologico insieme e mariano, subordinando la Madre al Figlio, la missione materna di Maria all'opera universale di salvezza dell'unico Salvatore.

L'Akathistos possiede un immenso valore teologico, dogmatico e mistico:

  • A motivo del suo respiro storico-salvifico, che abbraccia tutto il progetto di Dio coinvolgendo la creazione e le creature, dalle origini all'ultimo termine, in vista della loro pienezza in Cristo;
  • A motivo delle fonti, le più pure: la Parola di Dio dell'Antico e del Nuovo Testamento, sempre presente in modo esplicito o implicito; la dottrina definita dai Concili di Nicea (325), di Efeso (431) e di Calcedonia (451), dai quali direttamente dipende; le esposizioni dottrinali dei più grandi Padri orientali del IV e del V secolo, dai quali desume concetti e lapidarie asserzioni;
  • A motivo di una sapiente metodologia mistagogica, con la quale - assumendo le immagini più eloquenti dalla creazione e dalle Scritture - eleva passo passo la mente e la porta alle soglie del mistero contemplato e celebrato
Dunque l'Inno racchiude i dogmi più importanti della Fede Cristiana in Cristo e in Maria, stabiliti nei primi Concilj Ecumenici. Non a caso, la Madonna è colei che (come recita un tropario), "ha vinto da sola tutte le eresie", e nell'occasione in cui fu cantato per la prima volta solennemente l'inno (un assedio di Costantinopoli, di cui si veda poco sotto la storia, fosse quello del 626 o quello del 718) gran parte dei soldati erano in realtà eretici (manichei, gnostici, nestoriani, monofisiti) cacciati dai confini dell'Impero e diventati parte dell'esercito invasore. Le battaglie contro gl'invasori orientali, infatti, sono sempre ammantate da un profondo valore religioso (vedasi la conquista di Gerusalemme e il Trionfo della Santa Croce nel 628), poiché sono essenzialmente battaglie della Fede Cristiana contro gli eretici e i pagani.
L'importanza di quest'inno è testimoniata dal fatto che i Romani Pontefici, riconoscendo l’importanza di questo tesoro, ne hanno esteso la recita, con annesse alcune delle indulgenze, anche ai fedeli di rito latino, onde potessero farne partecipi i frutti e le grazie spirituali per sé stessi e soprattutto per la Chiesa tutta.

Nella liturgia bizantina, durante la Piccola Compieta dei primi quattro venerdì di Quaresima si canta, una stasi alla volta, l'Inno, che verrà poi ripetuto integralmente il venerdì della quinta settimana.
La tradizione tramanda che anticamente esso veniva cantato durante la veglia notturna prima della festa della Dormizione della Vergine, il 15 agosto. Infatti, nell'anno 626, mentre l'Imperatore Eraclio combatteva contro i Persiani, gli Avari, alleati di quest'ultimi, presero d'assedio Costantinopoli, e s'impadronirono della Chiesa della Santissima Vergine alle Vlacherne, preparandosi, la notte tra il 7 e l'8 agosto, all'assedio finale. Allora, il Patriarca Sergio (ritenuto perciò da taluni autore dell'inno), fece una grande processione con l'icona della Madonna Vlachernitissa, e la notte stessa la Divina Provvidenza inviò un terribile tornado che sgominò le forze avare e persiane. Per ringraziare la Madre di Dio, il popolo si riunì nella Chiesa delle Vlacherne e intonò l'Inno Akathistos, e particolarmente il kontakion d'introduzione: Τῇ ὑπερμάχῳ στρατηγῷ τὰ νικητήρια, "Alla nostra condottiera le vittorie"; si stabilì dunque di cantarle quell'inno in suo onore ogni 15 agosto, per ricordare la vittoria della Santa Vergine. Altre tradizioni, più improbabili, datano le origini di quest'inno ai secoli dell'iconoclastia (VIII-IX secolo). Sicuramente, il suo trasferimento in Quaresima è dovuto allo spostamento di quest'inno per la festa dell'Annunciazione, operato probabilmente nell'VIII secolo dai monaci di Studios, in funzione di sostegno alle tesi iconodule.

Per quanto riguarda l'autore, escludendo il succitato Patriarca Sergio I, dobbiamo basarci su tre dati: fu scritto prima del 626, sicuramente dopo il 431 (concilio di Efeso, di cui recepisce la teologia), probabilmente dopo il 560 (Giustiniano imperatore, per via di alcuni riferimenti alle pubbliche celebrazioni del Natale e dell'Annunciazione). I più l'attribuiscono all'innografo Romano il Melode, secondo quanto è riportato da alcuni scritti (però, tutti successivi al XIII secolo, dunque non direttamente attendibili), ma anche basandosi sul fatto che alcuni passi del testo sono presenti anche in altre composizioni sicuramente attribuibili al Melode.
Tuttavia, coloro che datano l'origine dell'uso liturgico al periodo iconoclasta, attribuiscono l'inno al Patriarca Germano I di Costantinopoli, che resse la città durante l'assedio arabo del 718 (quand'era imperatore l'eretico Leone III Isaurico); a sostegno di ciò, possono citare la versione latina dell'inno, redatta intorno all'anno 800 dal Vescovo di Venezia Cristoforo, che introduce così l'opera: Incipit Hymnus de Sancta Dei Genetrice Maria, Victoriferus atque Salutatorius, a Sancto Germano Patriarcha Constantinopolitano.
Altri sostengono che l'autore sia Cosma il Melode (VIII secolo), basandosi su un affresco della cappella di San Nicola nel monastero di San Saba a Gerusalemme, raffigurante un monaco che regge un cartiglio con il primo verso dell'Inno, e sopra il monaco sta scritto ὁ Ἅγιος Κοσμάς.
Oggi però la critica scientifica propende ad attribuire la composizione dell'Inno ad uno dei Padri di Calcedonia, aumentando dunque il valore teologico e dogmatico dello stesso.


I STASI

La prima parte dell'Akathistos (stanze 1-12) segue il ciclo del Natale, ispirato ai Vangeli dell'Infanzia (Lc 1-2; Mt 1-2). La prima stasi propone e canta il mistero dell'incarnazione (stanze 1-4), l'effusione della grazia su Elisabetta e Giovanni (stanza 5) e la rivelazione a Giuseppe (stanza 6).

lunedì 12 febbraio 2018

Il Grande Canone di S. Andrea di Creta

Il Grande Canone di S. Andrea di Creta (in greco ὁ μέγας Κάνων Ἁγίου Ανδρέου Κρήτης; in slavo Великий Канон святого Aндрея Критского) è un lungo poema quaresimale (250 tropari contro i 30 di un canone normale), un inno al pentimento e alla contrizione di cuore, composto tra VII e VIII secolo dal santo vescovo cretese, un insieme di riflessioni, ricordi, citazioni di tutto l'Antico Testamento, mozioni di cuore, suppliche a Dio affinché abbia misericordia di noi peccatori, come ben s'intuisce dallo stico con cui il coro intercala ogni tropario: Ἐλέησόν με ὁ Θεός, ἐλέησόν με! (slavo: Помилуй мя Боже, помилуй мя), ossia "Abbiate misericordia di me, o Dio, abbiate misericordia di Dio".

Questo canone, entrato nel cuore di tutti i cristiani bizantini, si canta durante la Grande Quaresima in due momenti: all'inizio, dal lunedì al giovedì della 'settimana pura' (ossia, guardando alle rispettive date del rito romano, dal lunedì di Quinquagesima al giovedì dopo le Ceneri), diviso in quattro parti, durante il lungo e suggestivo officio della Grande Compieta (Μέγα Ἀπόδειπνο); alla fine, il giovedì della quinta settimana, durante la veglia notturna (nelle parrocchie si anticipa al mercoledì sera), quando lo si canta integralmente, le cui odi sono intercalate per altro da altri tropari di composizione ecclesiastica successiva, e arricchite da tropari in memoria di S. Andrea di Creta e di S. Maria Egiziaca, santa asceta egiziana del IV-V secolo, esempio fulgido di pentimento e conversione, cui è dedicata la quinta settimana di Quaresima nella tradizione orientale. In questo modo, dunque, questo lungo e probante ufficio segna l'inizio e il termine della Quaresima per un cristiano bizantino. Un vescovo di Smirne lo definì come "uno squillo di tromba che cerca di portare l'uomo alla consapevolezza del suo peccato e condurlo al pentimento e alla conversione a Dio". Prosegue poi: "Il Grande Canone è un inno di profondo scontro e di scioccante pentimento. L'uomo sente il peso del peccato, comprende che la sua amara vita è lontana dal Dio vivente; si comprende la dimensione tragica di alienazione della natura umana nella caduta e la distanza da Dio. Cade a pezzi. Sprofonda, si riduce in cenere. Ma si sta preparando la salvezza, perché apre a sé la via del pentimento. La via che porta all'esistenza umana di Dio, la fonte della vita vera e la pienezza dell'ineffabile carità e della gioia indicibile".

L'intensità drammatica del poeta è veramente notevole: vengono presentate decine di esempi dalla Scrittura, alcuni dei quali magari citati in un solo versetto del Pentateuco, per cui a noi moderni potrebbero ad un primo sguardo risultare ignoti, esempi positivi e negativi, di virtù e di peccato, nell'arcaica storia della Salvezza. Il Canone presenta le classiche caratteristiche, dunque, della liturgia quaresimale e orientale e occidentale, ossia un continuo riferimento alle vicende d'Israele, alle quali dobbiamo guardare come un antico modello del popolo eletto, il quale ora non sono più i Giudei, ma siamo noi battezzati in Cristo, i quali, nondimeno, come il 'popolo di dura cervice', non manchiamo di offendere e allontanarci dal nostro Creatore, al quale dobbiamo ritornare con cuore umiliato e pentito, se vorremo salvarci. Il poema, nel complesso, è caratterizzato da un ricco lirismo e da elementi poetici notevoli: le descrizioni scattanti, con immagini che colpiscono, gli esempi, il simbolismo efficace e vivo, la lingua combinata con il canto triste e solenne, conferisce un fascino unico a questo componimento, veramente una fonte di grazia che colpisce nel cuore chi lo legge o lo ascolta. L'uso di domande retoriche e l'introduzione di dialoghi, spesso usati dal poeta, conferiscono al Canone un grande dramma. I ritratti biblici sono abbozzati con grazia, presentando al contempo la vicenda e le considerazioni morali, in una sintesi chiara ed immediata. Ma dobbiamo ricordarci che l'autore parla anzitutto a se stesso, descrivendo con tinte fosche il suo pensiero, ammettendo i suoi gravi peccati e mancanze, presentando la sua situazione personale come la condizione generale dell'essere umano. Ed effettivamente, il Canone calza all'anima di chiunque, essendo impossibile all'uomo non peccare, dopo la macchia originale. S. Andrea fu in vita sua un eretico: egli cionondimeno si pentì, e dedicò la sua vita al ministero ecclesiastico. Egli sa dunque quale fosse il suo sentimento Ma qualunque uomo ha le sue mancanze, le sue colpe davanti all'Altissimo, e qualunque uomo non può fare a meno che riconoscersi nelle scure parole di questo Canone.

Di seguito riporto una sintesi commentata del contenuto delle singole odi del Canone, scritta da Sua Beatitudine Manuel Nin, attuale Eparca della Chiesa Greco-Cattolica Bizantina, quando ancora era assistente spirituale dei greci cattolici a Roma:

Nella prima ode la vicenda di Adamo ed Eva e di Caino e Abele è intrecciata alle parabole del Figliol prodigo e del Buon Samaritano: "Avendo emulato nella trasgressione Adamo, il primo uomo creato, mi sono riconosciuto spogliato di Dio, del regno e del gaudio eterno, a causa del mio peccato. Ahimé, anima infelice! Perché ti sei fatta simile alla prima Eva? Hai toccato l'albero e hai gustato sconsideratamente il cibo dell'inganno. Cadendo con l'intenzione nella stessa sete di sangue di Caino, sono divenuto l'assassino della mia povera anima. Consumata la ricchezza dell'anima con le dissolutezze, sono privo di pie virtù, e affamato grido: O padre di pietà, vienimi incontro tu con la tua compassione. Sono io colui che era incappato nei ladroni, che sono i miei pensieri, mi hanno riempito di piaghe: vieni dunque tu stesso a curarmi, o Cristo".
Ancora le figure di Adamo ed Eva sono accostate nella seconda ode a quelle del pubblicano e della prostituta: "Ho oscurato la bellezza dell'anima con le voluttà passionali, e ho ridotto totalmente in polvere il mio intelletto. Ho lacerato la mia prima veste, quella che ha tessuta per me il creatore. Ho indossato una tunica lacerata, quella che mi ha tessuto il serpente col suo consiglio, e sono pieno di vergogna. Anch'io ti presento, o pietoso, le lacrime della meretrice: siimi propizio, o salvatore, nella tua amorosa compassione. Anche le mie lacrime accogli, o salvatore, come unguento. Come il pubblicano a te grido: Siimi propizio!".
Vengono poi presentate nelle odi successive la fede di Abramo, la scala di Giacobbe, la figura di Giobbe, la croce come luogo dove Cristo rinnova la natura decaduta dell'uomo, l'esperienza del deserto e delle infedeltà del popolo e dei re d'Israele, e Cristo che guarisce e salva: "Crocifisso per tutti, hai offerto il tuo corpo e il tuo sangue, o Verbo: il corpo per riplasmarmi, il sangue per lavarmi; e hai emesso lo spirito, per portarmi, o Cristo, al tuo genitore. Hai operato la salvezza in mezzo alla terra. Per tuo volere sei stato inchiodato sull'albero della croce e l'Eden che era stato chiuso, si è aperto".
L'ottava ode canta i grandi penitenti dell'Antico e del Nuovo Testamento: "Hai sentito parlare, o anima, dei niniviti, della loro penitenza in sacco e cenere davanti a Dio: tu non li hai imitati, ma sei stata più stolta di tutti coloro che hanno peccato prima e dopo la Legge. Come il ladrone, grido a te: Ricordati! Come Pietro, piango amaramente; perdonami, salvatore, a te io grido come il pubblicano; piango come la meretrice: accogli il mio gemito".
Infine, nell'ode nona è presentato tutto il mistero salvifico di Cristo che guarisce, chiama l'umanità per seguirlo e salva: "Ti porto gli esempi del Nuovo Testamento, o anima, per indurti a compunzione: Cristo si è fatto uomo per chiamare a penitenza ladroni e prostitute. Cristo si è fatto bambino secondo la carne per conversare con me, e ha compiuto volontariamente tutto ciò che è della natura, eccetto il peccato".
Il grande canone di Andrea di Creta racconta la storia della salvezza operata da Dio verso ognuno di noi. In un testo che ci mette davanti i diversi aspetti con cui la Chiesa lungo la quaresima ci confronta, cioè la misericordia di Dio e per mezzo di essa il nostro cammino di ritorno a Dio, avendo Cristo stesso come pastore e come guida, che finalmente il giorno di Pasqua prende di nuovo per mano Adamo ed Eva per farli uscire dagli inferi e riportarli nel paradiso.

Per chi fosse interessato, fornisco il pdf del testo greco (forma integrale). Chi volesse cercare le suddivisioni per singoli giorni del canone, le trova in slavo ecclesiastico QUI. Per la traduzione, invece, invito a fare riferimento a questo sito. Faccio presente che tra le tre versioni potrebbero esserci delle minime variazioni testuali (per esempio, nel testo slavo vi sono alcuni tropari che non compaiono nel testo greco perché considerati spurii).

Allego anche due video di celebrazioni del Grande Canone, una in slavo (officiata dal Patriarca di tutte le Russie Kirill) e una in greco (ma senza immagini). Si tenga conto che nelle ferie del tempo quaresimale gli slavi utilizzano i paramenti neri in segno di macerazione della carne, mentre i greci usano il viola per indicare la penitenza come i latini.



domenica 11 febbraio 2018

Storia, pratica e decadenza del digiuno quaresimale

Non è qui necessario rimembrare la grandissima utilità spirituale del digiuno come pratica di penitenza e mortificazione, i frutti che esso porta, e la necessità di praticarlo da parte dei Cristiani. Sin dai primi tempi, distaccandosi dagli usi giudaici, fu stabilito che i Cristiani non avessero cibi proibiti di per sé, ma dovessero osservare un rigoroso digiuno due volte alla settimana, il mercoledì (giorno del tradimento) e il venerdì (giorno della Crocifissione); a questi si aggiunse anche il sabato nella tradizione latina. Contemporaneamente, è invalso anche l'uso di osservare dei periodi di digiuno, periodi che servono a preparare spiritualmente e fisicamente il fedele alla celebrazione dei grandi misteri della Religione. Già dal IV secolo, come attesta S. Atanasio, era uso di osservare 40 giorni di digiuno per prepararsi alla Santa Pasqua, donde il nome di Quadragesima o Τεσσερακοστὴ.

I primi cristiani praticavano il digiuno quaresimale per 40 giorni di seguito (anche se sabati e domeniche non erano considerati giorni di digiuno, e per questi i giorni reali erano almeno 46, da cui si dovevano poi sottrarre i sopraddetti giorni liberi), seguendo una dura regola che ci viene descritta per filo e per segno in alcuni documenti del X secolo (riferentesi di per sé al digiuno per chi si preparava a ricevere gli Ordini Sacri), riassumibile in tre punti principali:
  • Un pasto solo al giorno, consumato rigorosamente dopo il tramonto
  • Divieto di consumo di qualsiasi prodotto di derivazione animale (carne, uova, latticini, grassi animali etc.)
  • Divieto di consumo di alcolici
Ciò che stupisce, leggendo le cronache antiche, è che chiunque, persino il contadino che lavorava nei campi per ore e ore anche durante la Quaresima, osservava rigorosamente il digiuno. La struttura fisica degli uomini di un tempo era sicuramente molto più robusta di quella dei nostri contemporanei, per permettere loro di compiere duri lavori a stomaco vuoto e senza proteine animali, potremmo dire; resta nondimeno il fatto che in Occidente si è visto un progressivo ammorbidimento delle normative circa il digiuno, alla qual cosa può essere (a mio modesto parere) imputabile anche l'indebolimento generale della nostra struttura fisica, che oggi fatica alquanto a restare senza determinati cibi per giorni e giorni, o senza cibo anche solo per poche ore. La debolezza di fisico è infatti la conseguenza della riduzione del digiuno, non già la causa, che va ricercata nello zelo scemante della società. Il punto di arrivo è l'assurdo digiuno prescritto dalla costituzione apostolica Paenitemini emanata da Papa Montini nel 1966, peraltro ad oggi messa in pratica da ben pochi tra i cattolici moderni, a dispetto dell'estrema rilassatezza del digiuno da essa previsto. Limitandosi ad osservare le norme per la Quaresima, ignorando il resto dell'anno, possiamo notare che per i cattolici conciliari i giorni di digiuno durante la Quaresima si riducono da 40 a 2, più 6 astinenze senza digiuno. Questa aberrazione, per cui possiamo realmente dire che i cattolici moderni non hanno né un vero digiuno né una vera Quaresima, dimostreremo qui come essa da una parte discenda effettivamente da una progressiva rilassatezza nella pratica diffusasi nel mondo occidentale, ma dall'altra rompa completamente con la tradizione, abolendo quasi del tutto le già permissive regole promulgate appena mezzo secolo prima da Papa S. Pio X. Le norme paoline, infatti, altro non sono che l'ufficializzazione delle disposizioni date in tempo di guerra da Pio XII (1941), le quali dovevano però inizialmente avere il carattere della temporaneità, e soprattutto erano riferite a una società attanagliata da un conflitto mondiale, non certo alla società dei consumi di oggi.

Il digiuno nella tradizione bizantina

Per un un debito confronto, reputo anzitutto utile presentare le regole tuttora seguite dai cristiani d'Oriente, e cattolici e ortodossi, le quali ricalcano in modo pressoché identico le consuetudini originarie del Cristianesimo primitivo.
Dopo un periodo preparatorio (una settimana senza carne, ma con licenza di uova e latticini anche di mercoledì e venerdì), che termina con la Domenica dei Latticini, s'inizia dal primo giorno della Grande Quaresima a seguire quotidianamente la regola del digiuno stretto, che comporta l'astinenza da carne e derivati, uova, latticini, pesce, vino e olio d'oliva. Il sabato e la domenica non sono giorni di digiuno secondo la tradizione orientale, ma le sue regole sono talmente strette che prevedono in questi giorni solo la licenza di olio e vino (nonché di pesce nella tradizione slava), e continuano a prescrivere l'astinenza dai cibi di derivazione animale. La stessa regola 'moderata' si segue anche in alcuni giorni festivi che cadono durante la Quaresima, come l'Annunciazione ο il miracolo di S. Teodoro di Amasea.
Ai fedeli non è richiesto di fare un solo pasto al giorno, cosa che invece è praticata dai religiosi; i più zelanti, e specialmente i monaci, solo durante la I settimana, non toccano cibo dal lunedì mattina fino al mercoledì sera (quando fanno un pasto dopo la Liturgia dei Presantificati), e poi di nuovo fino a venerdì sera (sempre dopo la Liturgia).
Durante la Settimana Santa, invece, alla sera del giovedì, prima dell'Ufficio dei XII Vangeli, si fa idealmente l'ultimo pasto, poiché durante il Venerdì non è concesso nemmeno ai fedeli di prendere alcunché; tutt'al più, per sostenersi, può esser concesso di prendere della frutta e un po' di vino al sabato mattina, dopo la Divina Liturgia della Prima Risurrezione. Il digiuno cessa dopo gli uffici della notte di Pasqua.

Evoluzione del digiuno nella tradizione occidentale

Per analizzare invece la complessa evoluzione del digiuno in Occidente, che non ha mantenuto la fissità di quello orientale, ci baseremo sui seguenti testi: le Regole dei primi Padri (e.g., S. Cesario, S. Benedetto), la Summa Theologiae di S. Tommaso d'Aquino, i manuali di teologia e penitenza di diverse epoche (P. Scarsella per il '500-'600, P. Corella per il '600-'700, P. Righetti per l'800), e infine il Codex Juris Canonici del 1917.

Come norma generale, sancita già da S. Tommaso, giova ricordare che l'astinenza in Occidente obbligava dai sette anni in poi, il digiuno dai ventuno ai sessantacinque. Inoltre, differenza fondamentale rispetto alle usanze orientale, in Occidente fu sempre consentito il consumo di pesce e simili animali a sangue freddo (come rane, molluschi, tartarughe, ecc.), poiché le loro non erano usualmente considerate carni. Gli anfibi vengono trattati secondo la categoria alla quale assomigliano di più, in accordo alla classificazione aristotelico-tomistica. Infine, in Occidente solo le domeniche sono giorni liberi dal digiuno, ma in essi non si osserva il 'digiuno moderato' di stampo orientale, ma è lecito di mangiare qualsivoglia quantità e qualità di cibo.

I Padri d'Occidente attestano che le regole da osservarsi all'interno dei monasteri (che prevedevano anche diversi giorni della Quaresima durante i quali non si mangiava alcunché), assomigliavano parecchio a quelle dei monaci bizantini; in Settimana Santa, poi, era uso di cibarsi solo di pane ed erbe salate. Simile era anche il digiuno praticato dai fedeli, con l'aggiunta della pratica di consumare quotidianamente un solo pasto, dopo il Vespero. Ancora fino alle riforme del 1955, del resto, forse più per relitto che per pratica vera e propria, le rubriche del Breviario Romano, al Vespero del sabato avanti la I domenica di Quaresima, riportano che hodie et deinceps usque ad Sabbatum sanctum, exceptis diebus dominicis, Vesperae dicuntur ante comestionem, etiam in Festis (oggi e d'ora in avanti fino al Sabato santo, tranne le domeniche, i Vespri si dicono prima di prender pasto, anche nelle Feste)
Proprio su questo aspetto s'iniziò, sin dall'alto Medioevo, a ricamare 'sofismi' che avrebbero poi portato all'alleggerimento del digiuno. Per esempio, dal X secolo, nei monasteri iniziarono a cantare Vespro in Quaresima all'ora nona, per poter prendere subito dopo la refezione; nel giro di pochi secoli, l'ufficio vespertino fu anticipato addirittura al mezzogiorno, tanto che S. Tommaso avverte che non è lecito, né ai religiosi né ai fedeli, di consumare il pasto prima di mezzodì. Con l'anticipazione del pasto, non dovette passare molto tempo perché (nel XIV secolo) venisse introdotta la possibilità di compiere una 'refezioncella' alla sera, la quale sarà, nei secoli successivi, quantificata dai moralisti in circa 250 grammi (i più severi, come l'Arregui, concedevano solo di mangiar pane in questa refezione; la maggioranza, cionondimeno, ammetteva qualsiasi cibo non proibito dalla legge dell'astinenza). Nel frattempo, s'inizia anche a normare cosa si possa prendere fuori pasto. Già la tradizione antica e bizantina ammetteva che l'assunzione di liquidi durante i giorni di digiuno fosse lecita (escluso ovviamente il latte); i moralisti stabilirono che era lecita qualsiasi bevanda presa per dissetarsi o riscaldarsi, giammai per nutrirsi. Alcuni ammettevano di poter sciogliere dello zucchero o un po' di confettura all'interno della bevanda (sempre a patto che lo scopo fosse di addolcirla per renderla bevibile, e non di darsi nutrimento); particolarmente noto è l'aneddoto che vuole che Papa S. Pio V abbia fatto rientrare la cioccolata calda tra le bevande lecite, in quanto, essendone restato disgustato, l'aveva sentenziata come una 'penitenza aggiuntiva' (si deve tener conto, anche nell'osservanza di questo indulto, che la cioccolata dell'epoca era rigorosamente amara). Iniziano a studiarsi debitamente anche tutti i casi in cui si commetta peccato nel rompere il digiuno (p.e., quanta carne o quanto cibo fuori pasto lo rompa; chi possa esser scusato dal non aver osservato il digiuno, etc.). Compaiono tra il XVI e il XVII secolo le istruzioni circa la concessione delle dispense, concesse ordinariamente dai Parroci o dai Confessori, di poter consumare uova e latticini; rare sono invece quelle che svincolano dall'obbligo di digiunare, o di non consumare carne. Compaiono anche alcune dispense 'nazionali': in Spagna fu per esempio fu permesso su tutto il territorio nazionale di consumare uova e latticini in alcuni giorni della Quaresima; ai conquistadores in Messico fu concesso di consumare carne di topo, non essendovi altro mezzo di sostentamento per essi.
Ai primi dell'Ottocento il Righetti attesta due cose: la progressiva diminuzione dello zelo nell'osservare il digiuno (più volte nel suo manuale paragona i rilassati costumi dei suoi contemporanei a quelli molto più osservanti degli Orientali); l'introduzione di una nuova refezione lecita, ossia una piccola colazione al mattino (quantificata in 60 grammi) per darsi le energie necessarie a svolgere il proprio lavoro durante la mattinata. Con quest'ultima concessione, di fatto il 'digiuno' non ha più (se non nella sua formulazione teorica sine licentiis) il suo significato originale e antico di un solo pasto durante il giorno, ma indica piuttosto una certa riduzione della quantità di cibo consumate in due dei tre pasti quotidiani, e l'astenersi da prender cibo fuor da tali tre refezioni.
Verso la fine del XIX secolo la pratica appare assai abbandonata: a titolo d'esempio, quasi tutti i paesi godono di una licenza, parziale o totale, dall'astinenza da uova e latticini; gli Stati Uniti ottengono nel 1887 addirittura il permesso di consumare carne nel pasto principale di lunedì, martedì e giovedì, e di usare grassi animali tutti i giorni.

Queste son dunque le premesse che portarono alla nuova normativa del digiuno, stabilita da S. Pio X agl'inizj del XX secolo, e riportata dapprima nel suo Catechismo, e indi nel Codice di Diritto Canonico di cui egli iniziò la redazione, portata a compimento tre anni dopo la sua morte dal successore Benedetto XV. Si trattò infatti, più che di una 'rivoluzione normativa', di riscrivere in una forma più semplice la norma già allora osservata, recependo l'effetto di tutti quegl'indulti oramai globalmente diffusi.
Viene dunque sostanzialmente mantenuto l'obbligo del digiuno quotidiano, con annessa possibilità di refezioncella e colazione supplementari, mentre l'astinenza delle carni viene ridotta ai soli mercoledì, venerdì e sabati della Quaresima (mentre negli altri giorno sono lecite solo al pasto principale). Le uova e i latticini, precisa letteralmente, non sono mai proibite dalla nuova legge dell'astinenza. Scompaiono anche le prescrizioni particolari per la Settimana Santa, che a dire il vero erano state ignorate, e probabilmente dunque sostituite dall'estensione delle norme del resto della Quaresima, già da qualche secolo.

In conclusione, ritengo che al momento, viste le mutate condizioni fisiche e le abitudini contratte, sarebbe per gli Occidentali molto difficile ritornare alla purezza e al rigore del digiuno quaresimale della tradizione antica e bizantina; essi però, guardando con sana invidia all'esempio dell'Oriente che continua tutt'oggi ad osservare questa dura regola, dovrebbero applicarsi massimamente nell'osservazione del digiuno almeno secondo le norme promulgate da Papa San Pio X. Escludo a priori che seguire la regole del '66, improntate alla nuova mentalità 'facile' dei modernisti, possa portare mai un qualche frutto spirituale.
Digiunare non è infatti, come qualcuno vuol far credere, una pratica desueta, consuetudinaria ma sterile, solo esteriore e simbolica, ma è al contrario una delle pratiche ascetiche più efficaci, più probanti, più fruttuose, più vere. E solo un digiuno duro, sincero, magari praticato nel segreto, non senza fatica, unitamente alla preghiera ardente, umile e incessante, e alla carità in nome di Dio, è la chiave infallibile che un Cristiano possiede per poter vincere il demonio e le passioni e giungere purificato all'unione con il Signore nei Suoi misteri di Passione, Morte e Risurrezione.

Buona Santa Quaresima!